La scelta di K? Lavorare in un coworking (come molti, anche in Italia)

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Giovane, bello e innamorato. Innamorato a tal punto da lasciare l’Ungheria per trasferirsi ad Milano. Per stare con la sua dolce metà, conosciuta durante l’Erasmus in Germania. Quegli amori che scoppiano a 20 anni senza un perché e senza perché finiscono. E’ stato così un po’ per tutti: si pensava fosse amore e invece era un calesse. Il problema per K., a quel punto, era come sfangarsela. Chiaro, lei l’avrebbe aiutato, gli voleva bene, ma lui era troppo orgoglioso per accettare la mano tesa di chi le aveva rifiutato il cuore. E di tornarsene in patria neanche a parlarne. Bisognava inventarsi qualcosa.

K. era un ragazzo sveglio, aveva studiato in California e lì, in tempi non sospetti, aveva sentito parlare di coworking.

Ne aveva intuito confusamente i contorni, più che altro l’idea generale, ma non sapeva di cosa si trattasse esattamente. Di lì a qualche mese l’avrebbe scoperto. E l’avrebbe scoperto a Milano. Il mondo del coworking stava allora muovendo i suoi primi passi tra lo scetticismo di chi lo considerava una bravata da choosy e chi si rifiutava anche solo di sforzarsi di capire (siamo pur sempre in Italia, eh). I tempi erano maturi però.

Il coworking Impact Hub di Firenze

Armato del suo pc K. entra a far parte del coworking, si fa conoscere ed apprezzare, lavora duro per potersi mantenere (lui solo, senza una rete sociale di supporto nell’Italia) e riesce a mettere su non una, ma bensì due attività: import export di birra e un negozio online.

L’intelligenza, la caparbietà e il coraggio non sono doti che mancano a K. ma in questa Italia non sono sufficienti, serve altro. Serve una rete di collaboratori a cui appoggiarsi, un luogo dove incontrare i clienti, competenze e skills da attivare (quasi) on demand. E tutto questo lo trova presso il centro di coworking. Lo trova tra i coworker che gli offrono, perfettamente ricambiati, l’appoggio e il sostegno necessari per superare i momenti più difficili. Il coworking diventa così per K. un luogo ibrido: un po’ ufficio, un po’ famiglia, un po’ compagnia.

Ora, a distanza di 3 anni da quei fatti, K. se n’è andato. E’ tornato in Ungheria, curiosamente ma non troppo, per amore di un’altra bella fanciulla.

E a breve diventerà papà. Provate ad immaginare dove è andato a lavorare?

Perché vi abbiamo raccontato questa (bella) storia? Perché di K. è pieno l’Italia, sono pieni i coworking per la precisione: gente carica di entusiasmo, che crede nel proprio lavoro e nelle proprie idee. Gente che non si rassegna alla retorica del declino ma che, al contempo, è consapevole delle difficoltà e delle tante criticità del sistema in Italia. E che ha deciso di cambiarlo dal basso, con l’esempio e con il lavoro.

L’Espresso coworking del 2013 a Roma con i tavoli di lavoro

Molte di queste persone si ritroveranno a Firenze la prossima settimana, precisamente il 6 e il 7 dicembre per partecipare ad Espresso Coworking, la nonConferenza nazionale dei temi del coworking e del lavoro, per capire, tra le altre cose, l’impatto delle community collaborative sui territori.

Vogliamo sentire le voci dei tanti J sparsi per i coworking italiani. Vogliamo capire cosa funziona e cosa può funzionare meglio. Vogliamo sentire le vostre storie. Per voi l’opportunità di incontrare persone che, come voi, credono nel valore della collaborazione e della relazione, e perché no, ottenere quel po’ di visibilità che non guasta mai. Ci contiamo. Davvero.

GIORGIO BARACCO

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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