Il valore della resilienza, vero motore del cambiamento delle città

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Il FAB10, l’ultimo congresso internazionale tenutosi a Barcellona sugli stati generali dei temi che ruotano intorno ai fabrication laboratory, ha lanciato un po’ di tempo fa il tema della sua Call for Paper dal titolo “Productive cities, from Smart city to Fab City”, alla quale abbiamo avuto la possibilità di partecipare presentando un progetto sviluppato negli ultimi quattro mesi all’Accademia Mediterranea di Architettura e che qui mi piacerebbe condividere con voi. Ma andiamo per ordine.

In un bel libro dal titolo “Bambini che sopravvivono alla guerra” Andrea Canevaro, professore di pedagogia speciale presso l’Ateneo di Bologna, definisce la resilienza come “la capacità non tanto di resistere alle deformazioni, quanto di capire come possano essere ripristinate le proprie condizioni di conoscenza ampia, scoprendo uno spazio al di là di quello delle invasioni, una dimensione che renda possibile la propria struttura”.

Vi racconto della definizione di resilienza che il prof. Canevaro dà nel suo libro, perché è da questa riflessione che siamo partiti per ricercare nuovi possibili sviluppi per le città e, in generale, per i modelli sociali, economici e materiali in cui viviamo.

L’interesse verso alcuni comportamenti presenti in natura, ci ha portato ad approfondire il significato di resilienza, parola rubata all’ambito fisico ed utilizzata per descrivere le caratteristiche di molti sistemi (ambientali, culturali, psicologici) con accezioni che, oscillando, vanno dalla “resistenza che un individuo oppone al cambiamento esterno” alla “velocità con cui una comunità ritorna al suo stato iniziale”.

Cos’è la resilienza

Potrebbe sembrare che questo tema non abbia nulla a che fare con la riflessione sul futuro delle città chiestaci dal #FAB10Barcelona.

Ma le città, intese simili ad ecosistemi pulsate da uomini, materia ed informazione, sono chiamate oggi ad elaborare strategie per migliorare la condizione della nostra vita.

Da qui il parallelo che ci ha guidato nell’approfondire il concetto di resilienza in ecologia e, in particolare, nella sua visione ampia, la sinecologia, di cui abbiamo cercato di studiarne le peculiarità evolutive. La resilienza, infatti, in questo contesto è definita come la capacità di un qualsiasi ecosistema di ripristinare l’omeostasi, parola difficile ma che indica semplicemente la condizione dinamica che spinge l’ecosistema all’equilibrio. Alcuni ecosistemi, quindi, a seguito di una loro alterazione, hanno la capacità di costruire ulteriori condizioni di equilibrio con il fine ultimo di garantire nuovamente la vita e la prosperità di tutte le specie in esso coinvolte.

La cosa più affascinante, dal nostro punto di vista, è stata capire in che modo tutto ciò potesse avvenire. Ed altrettanto illuminante è stato sovrapporre queste conoscenze agli ambiti progettuali, le città, che stavamo studiando, indagandone i limiti e le possibilità applicative.

Interessante, ad esempio, è stato capire come l’abbondanza, in numero e in varietà, degli agenti coinvolti in un ecosistema, è un fattore proporzionale alla capacità dello stesso di creare nuove condizioni per l’equilibrio. Questo, per la nostra ricerca ha voluto dire: maggiori differenze = maggiori possibilità risolutive. Wow! Forse siamo ingenui, ma il fatto di realizzare che comunità messe insieme con gli stessi interessi, le stesse modalità di vita e obiettivi, hanno sì la possibilità vivere e magari prosperare in pace, ma sono destinate a dissolversi nel momento in cui sono chiamate a ricreare nuove condizioni di equilibrio a seguito di una crisi o di un cambiamento catastrofico, è stato sovvertire le convinzioni che fino a quel momento avevamo.

Le città come sistema complesso

Da qui in poi, abbiamo potuto verificare che in una comunità come una città, maggiori sono le differenze tra le caratteristiche degli attori coinvolti, degli interessi in gioco, degli strumenti utili al cambiamento, maggiore è la capacità della stessa comunità di trovare soluzioni comuni a nuovi equilibri.

Questo ci suggerisce anche un ulteriore riflessione, e cioè che alcuni non sono tutti : costituiamo un sistema complesso, non una cellula. Per fare andar meglio le cose non basta ricrearsi la propria comunità che funziona in un posto bellissimo dove tutto e tutti ci sono conformi. La nostra vita, nell’enorme complessità ambientale e culturale in cui e nata e che le è propria, ha la necessità di trovare i suoi nuovi modelli in quella stessa eterogenea complessità (origine e panacea dei suoi stessi mali), e di coinvolgere e confrontarsi con tutti nella ricerca delle condizioni migliori per la nostra esistenza.

Lo so, è destabilizzante. È come se non potessimo decidere solo per noi stessi. Come se la nostra vita non ci appartenesse del tutto, o per meglio dire ci appartenesse in misura proporzionale a quanto nella nostra vita, facciamo giocare gli interessi di tutti. Più è di tutti, più è nostra.

Dall’abbondanza economica alla condivisione delle conoscenze

Ancora, straordinario per noi è stato studiare la capacità di autoriparazione che alcuni ecosistemi presentano, ovvero scoprire in che modo si attua l’auto-organizzazione di tutti gli agenti coinvolti in un ecosistema nel momento in cui cominciano ad esserne minate le condizioni di vita. Qui la ricerca ci dice che in ecosistemi a carattere antropico molto forte come città, comunità, paesi, questa peculiarità è totalmente slegata dal concetto di abbondanza economica, tecnologica e di opportunità presenti in quel contesto, ma è in diretta corrispondenza con il grado di conoscenze condivise che la comunità presenta. Altro wow!

La riflessione sul fatto che le società che hanno più capacità di reinventarsi un presente e un nuovo orizzonte in cui vivere non sono necessariamente quelle più ricche, ma sono quelle che producono e condividono più conoscenze, ha orientato molte delle nostre scelte progettuali. E se ci pensiamo un attimo, in questa visione s’inseriscono tutte le pratiche, i movimenti, le culture (dalla social innovation ai fablab, agli haker space, alle open university) che in questi ultimi anni si stanno muovendo dal basso e che ci sono sembrate la vera risposta che il nostro ecosistema sta cercando di dare, pur con diversi gradi di consapevolezza, alla minaccia di vita che stiamo subendo.

Risposte che mirano, nell’essenza, alla creazione di un nuovo mezzo con cui fare leva, che s’identifica non più solo nella creazione di ricchezza economica ma soprattutto nella costruzione e condivisione di conoscenze. Questi ed altri spunti scaturiti dagli studi condotti in questi mesi, ci hanno orientato verso scelte progettuali che si sono condensate nel paper presentato al FAB10Barcelona. In particolare, il report si focalizza sulla realtà Italiana della città di Ferrara, ed individua nelle aree industriali dismesse una straordinaria opportunità simbolica e concreta di riorganizzazione d’intere città offerta dai luoghi inaspettati.

La rigenerazione delle aree industriali dismesse

Il report sintetizza l’approccio progettuale adottato, applicabile e scalabile in diversi contesti, e i benefici sociali, economici ed ambientali propri del modello di città resiliente elaborato. Le buone pratiche di rigenerazione di aree industriali dismesse sono analizzate per individuarne i punti di forza, mentre uno studio specifico delle tipologie e morfologie di padiglioni industriali è stato condotto e presentato allo scopo di fornire una valutazione preliminare delle possibili soluzioni progettuali. Il mix di fonti energetiche rinnovabili utilizzato (fotovoltaico, solare, termico, idroelettrico, biomasse) rende il quartiere, oggetto della nostra ricerca, autosufficiente e contribuisce a chiudere il ciclo dei rifiuti trasformando lo scarto in energia.

La sezione dedicata alla Vertical Farm, fulcro della vita e del funzionamento del quartiere resiliente, presenta i risultati della prima indagine condotta sulle modalità di coltivazione indoor e sui vantaggi sinergici dell’integrazione con le residenze e i servizi collettivi. Il recupero dei padiglioni industriali è reso possibile da innovazioni tecnologiche a basso costo, utilizzando la vegetazione come materia costruttiva “viva” in grado di agire e reagire alle condizioni ambientali e di entrare in sinergia con la vita dell’uomo nei suoi stessi spazi. Inoltre, il modello sociale innovativo proposto, incentrato sulla condivisione dei mezzi produttivi e degli spazi collettivi residenziali, delinea un nuovo modello urbano che potrebbe diventare il carattere costitutivo della rigenerazione “resiliente” delle aree industriali dismesse. Ridondante, inclusiva, intraprendente, flessibile, bilanciata, adattiva, integrata e bella, è il modello di città che ci siamo immaginati per il nostro futuro.

Questo e molto altro è quello che abbiamo presentato a Barcellona e che vorremo condividere con tutti voi, insieme all’auspicio che studi come questo possano presto trovare terreno sul quale sperimentarsi e fornire un piccolo contributo per un vera rinascita.

Infine, lasciatemi dare merito alle persone insieme alle quali è stato possibile realizzare tutto ciò: Antonia Gravagnuolo, Emanuela Lanzara, Rossella Notari, Giuseppe Luciano, Elena Aufiero, Giuseppe Di Domenico, Gianluca Lambiase, Carlo Paolucci, Gianmarco Covone, Francesca Luciano, Gianpiero Picerno Ceraso.

Grazie!

Amleto Picerno Ceraso

Qui il link all’abstract

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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