Il senso del crowdfunding spiegato a quelli della Leopolda13

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Sabato dovevo essere a Firenze, alla Leopolda13, la tre giorni organizzata da Matteo Renzi. Come ormai da tradizione, per tutta la giornata si sono avvicendati sul palco non solo politici, ma soprattutto società civile, imprenditori, personaggi noti ma anche persone comuni. 4 minuti secchi e inflessibili per declinare un tema piuttosto libero: “Dai un nome al tuo futuro”. Avrei dovuto parlare, la febbre mi ha tenuta a letto. Peccato: credo fosse un’occasione interessante per portare temi su cui in questo settore ci arrovelliamo ogni giorno a una platea piuttosto digiuna. Per me è quella la sfida, uscire dal recinto degli addetti ai lavori. Ovviamente il testo è solo la traccia di un discorso che avrei modellato sul palco, e risente di semplificazioni dovute al poco tempo a disposizione.

È comunque importante che mi avessero dato questa possibilità: un segnale di apertura da una parte della classe dirigente di questo paese che di questi tempi non è da sottovalutare.Comunico da quando ero bambina (una bambina piuttosto logorroica, a dire il vero). Ho studiato storia dell’arte e cinema, ho lavorato per la pubblicità, la pubblica amministrazione e un po’ di politica. La comunicazione attraversa la mia vita. Oggi mi occupo di un settore specifico, la comunicazione digitale, che significa maneggiare parole che la maggior parte delle persone, compresa la mia mamma, non conoscono e faticano a capire. Ad esempio ICT, open source, startup, sharing economy, carpooling, DIY (do it yourself) e crowdfunding.Ecco, siccome il fatto che molte persone non le conoscano un po’ mi preoccupa, ho deciso di parlarvene oggi.

Perché non si tratta di termini astrusi che definiscono concetti inarrivabili, ma di parole (straniere, lo so) che descrivono cose che ci servono, eccome.C’è un mondo là fuori, sul web, che non è fatto solo di persone che aggiornano costantemente Facebook e Twitter con la faccia infilata nello smartphone. Fanno anche un po’ di cose apparentemente strane, ma interessanti. Per esempio creano dal nulla oggetti con le stampanti in 3D; oppure condividono una stanza inutilizzata della casa affittando un posto letto a chi viaggia; la stessa cosa la fanno con l’auto, con una sorta di autostop che permette di dividere la spesa del carburante e mettere meno auto sulle strade (quindi inquinando anche meno); scambiano vestiti comprati e magari usati una volta, condividono on line le loro conoscenze per realizzare un software che serve a tutti, o fanno gruppi di acquisto per i prodotti agroalimentari di filiera corta.

Hanno una serie di caratteristiche in comune: risparmiano, barattano, spendono meglio, guadagnano su dei beni che di solito sono solo una spesa (l’auto, la casa), sono più ecologici. E tutto questo lo fanno on line. La parola chiave che accomuna queste idee che circolano in rete è open: aperto, condiviso, fruibile da tutti.Tra quelle parole straniere e poco note c’è quella di cui mi occupo da un po’: crowdfunding. Crowd vuol dire folla, funding finanziamento. Che significa? Che se ho un progetto da realizzare, se le banche non mi danno un finanziamento, se un ente pubblico non ha più fondi per sostenere i progetti locali e non può aiutarmi, io posso metterlo on line, raccontarlo e chiedere alle persone di sostenermi, un pezzetto ciascuno.Lo so che la conoscete. La chiamate colletta, raccolta fondi. Sì, è quella cosa lì, ma fatta non solo per la beneficenza, e fatta sul web, usando i social network per condividere i progetti. Serve al gruppo teatrale locale che ha bisogno di 5.000 euro per finanziare uno spettacolo come alla startup che ne cerca 100.000. In modi diversi, con garanzie diverse, ma il senso profondo è quello: vi racconto la mia idea, in modo aperto, e vi chiedo di credere in me, di valutare se vi interessa. Mi pare di ricordare che c’è stato anche un candidato politico che l’ha usata per mettere la benzina a un camper, ma non ricordo bene chi fosse…Negli Stati Uniti il crowdfunding da circa quattro anni macina svariati milioni di dollari. In Italia sta decollando, ma a fatica. La differenza è nella mentalità. In questo paese spesso si insegna ai creativi ad avere paura. Non a lanciarsi nel mondo con la forza delle proprie idee, ma a coltivare un curriculum corposo (che nel più dei casi è difficilissimo farsi) andando a bussare alle porte di grandi aziende già esistenti. Perché invece non raccontare loro che c’è un’opportunità dal basso per emergere? C’è un mondo fuori, globale e locale insieme, da affrontare con spirito aperto e pionieristico, usando le innovazioni della Rete. Siamo aperti.Chiudo citando le parole di uno di quegli italiani che meriterebbero di essere conosciuti da tutti, più di tanti intellettuali da cortile, ma che invece purtroppo conoscono solo quelli del suo settore: Marco Zamperini, che ci ha lasciato purtroppo qualche giorno fa. Lui diceva: «La mente è come un paracadute. per usarla, devi aprirla». Apriamoci e apriremo al futuro!

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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