I social network e il peggio di noi

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In Rete c’è un sito che annuncia la nascita di una nuova “birra per le donne”. C’è anche una pagina Facebook che riprende l’improbabile comunicazione, ci siamo cascati in tanti al primissimo istante, reagendo ciascuno a suo modo, prima di accorgerci che il count down del sito scadeva il primo aprile. Uno scherzo, insomma.

Nel frattempo un wall volutamente privo di alcuna moderazione è servito a migliaia di utenti per coprire d’insulti il prodotto e l’assurdità della sua comunicazione volutamente paradossale. Fin qui tutto bene, l’esperimento dei creativi era perfettamente riuscito. Quasi.

Perché in poche ore il muro digitale si è letteralmente riempito d’insulti della peggior specie, bestemmie, incitazioni alla violenza sulle donne e frasi razziste. Nel frattempo gli esperti del marketing hanno pronunciato la fatidica sentenza dell’ “epic fail”, il sito ha chiuso i commenti e abbiamo perso un’altra occasione per migliorare un po’ la reputazione di questo mestiere.

Perché il punto non è la riuscita o meno del Pesce d’Aprile. Se sia epic “win” o “fail” non interessa moltissimo alle persone.

A noi deve invece interessare l’atteggiamento di marche e professionisti che usano i social network per tirare fuori il peggio delle persone. Non bisogna essere laureati in psicologia sociale per ricordare il famoso esperimento carcerario di Stanford. Prende le mosse dalla teoria della deindividuazione di Gustave Le Bon: “gli individui di un gruppo coeso costituente una folla, tendono a perdere l’identità personale, la consapevolezza, il senso di responsabilità, alimentando la comparsa di impulsi antisociali”.

Il professor Philip Zimbardo è partito da qui per formare due gruppi d’individui, carcerieri e carcerati, selezionati tra persone normalissime: “maschi, di ceto medio, fra i più equilibrati, maturi e meno attratti da comportamenti devianti, assegnati casualmente al gruppo dei detenuti o a quello delle guardie”.

L’esperimento sfuggì di mano al gruppo dei ricercatori che si trovarono a fare i conti con comportamenti gratuitamente ed eccessivamente crudeli da parte di chi era stato chiamato a sorvegliare, e violentissimi da parte dei prigionieri, entrati nel ruolo al punto da scatenare una vera e propria rivolta che avrebbe avuto conseguenze gravissime se non fosse stato interrotto l’esperimento.

Prendere le donne e usarle come cavie da laboratorio non è creatività, è una meschina forma di violenza digitale. Mi dispiace per i colleghi che inneggiano alla creatività libera e senza filtri, alla sperimentazione che dovrebbe farci vincere un nuovo Leone al Festival di Cannes. Mi dispiace anche per un brand che non ha bisogno di questi mezzii per spingere la Rete a “far parlare di sè”.

Mi dispiace soprattutto veder sfumare un’occasione per dimostrare fuori dai nostri computer, dai nostri powerpoint e dai nostri compulsivi videocase che il marketing, la creatività pubblicitaria e i social media possono anche essere usati in maniera positiva, costruttiva e veramente al servizio delle persone.

Qualche settimana fa ci fu addirittura una Pubblicità Progresso contro la violenza femminile con l’immagine di una donna, un fumetto volutamente lasciato in bianco e l’invito a completare una frase sui manifesti della pubblicità, suggerendo un incipit che nel 99% dei casi poteva solo finire nel dileggio e nella violenza verbale a cui purtroppo le donne sono esposte ogni giorno in famiglia, al lavoro e per strada. Anche qui, esperimento perfettamente riuscito, documentato dal video con telecamere nascoste che è diventato lo spot dell’operazione. Davvero serviva un finto esperimento di questo tipo per dimostrare quanto la nostra società sia ancora così intrisa di pregiudizi, sessismo e meschinità nei confronti dell’altra metà del cielo?

La birra rosa è un’idiozia e lo sappiamo tutti. Non serviva inseguire l’effetto virale per stanare idioti e violenti. Peccato che ancora una volta ci si sia serviti delle donne come esca per dimostrare che “gli individui di una folla tendono a perdere l’identità personale, la consapevolezza, il senso di responsabilità…”. E forse un po’ di responsabilità dovremmo cominciare a praticarla anche noi che usiamo le nostre idee per abitare gli spazi dell’immaginario collettivo.

Milano, 26 marzo 2014Paolo Iabichino Iabicus

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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