I gattini specchio dell’umanità e di Internet che ha salvato il mondo

innovaizone

Probabilmente è vero. Internet non salverà il mondo. Ha ragione Morozov, del quale vengo colpevolmente a conoscenza grazie ad una bellissima intervista di “Quit The Doner” su Linkiesta (della quale consiglio a tutti la lettura, intitolata “Perché’ Internet non salverà il mondo”). Quit è uno di quelli la cui lettura stimola l’attività celebrale. Non affronta l’intervista a Mozorov con la stessa postura prona che altri giornalisti affronterebbero solo per portare a casa l’intervista. Ma incalza l’esperto con domande intelligenti facendo emergere i punti chiave della sua teoria. Questo non vuole ovviamente dire che ne condivida tutti i punti di vista, altrimenti sarebbe un guru non uno che scrive (non sapevo se usare il termine giornalista, blogger, scrittore…..la gente è molto sensibile a queste cose).

Dopotutto non è compito di chi scrive quello di convincerci necessariamente del proprio punto di vista, ma piuttosto stimolare il pensiero. Ed è proprio quello che la lettura dovrebbe fare. Stimolare la riflessione, non adottare il pensiero di un’altra persona in maniera totalmente osmotica. Mozorov, viene internazionalmente riconosciuto come un tecno-scettico, uno “contro la tecnologia” (banalizzazione estrema), ma questo è evidente solo ad un lettore superficiale. Che Internet non salverà il mondo se lasciato nelle mani delle grandi corporation della Silicon Valley, credo sia evidente, ma quello che sostengo io è che mai prima d’ora abbiamo l’opportunità di poter prendere parte attiva al cambiamento. Ma non esclusivamente andando la fuori e facendo start-up, ma ridefinendo e ampliando anche il paradigma della partecipazione politica dal basso, contrapponendosi proprio a quell’accentramento del potere politico e mediatico che ha caratterizzato il XX secolo, muovendosi negli spazi che d’ombra che gli uomini che utilizzano Internet hanno generato.

Lo ripeto, Internet non salverà il mondo, ma fondamentalmente perché è una cosa degli uomini, così come la religione, le armi e la guerra. Non sono sbagliati in se, ciò che è sbagliato è l’utilizzo che se ne può fare.

Guns don’t kill people, people kill people with guns

Internet non è un entità magica che scenderà su di noi modello Spirito Santo per erudirci e farci parlare tutte le lingue del pianeta. Non aprirà un divino terzo occhio sulle nostre fronti. Non ci ha resi più intelligenti, colti o scaltri. E’ un mezzo perfezionabile ma non perfettibile perché essendo una cosa degli uomini, porta con se i suoi difetti. Se su Internet vanno forte i gattini, è perché alla gente piacciono i gattini. E’ inutile, bisogna farsene una ragione.

E’ lo stesso dibattito che gira intorno alla televisione da anni: ci instupidisce dandoci contenuti imbarazzanti o semplicemente ci da quello che vogliamo? Ecco, Internet è la prova che siamo noi a imbarazzare noi stessi. Cerchiamo e condividiamo contenuti che nella vita reale ci vergogneremmo anche solo di nominare; su Internet tendiamo a dare il peggio di noi stessi convinti che dall’altra parte non ci ascolti nessuno e che nessuno possa giudicarci perché protetti da uno schermo.

Detto ciò, da qui parte la mia, forse troppo ambiziosa, riflessione riguardo all’utilità di Internet come strumento di evoluzione e progresso, quest’ultimo inteso come:“Lo sviluppo verso forme di vita più elevate e più complesse, perseguito attraverso l’avanzamento della cultura, delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, dell’organizzazione sociale, il raggiungimento delle libertà politiche e del benessere economico, al fine di procurare all’umanità un miglioramento generale del tenore di vita, e un grado maggiore di liberazione dai disagi” (Enciclopedia Treccani).

Uno dei punti più interessanti discussi nell’intervista con Mozorov, riguarda la cristallizzazione del consenso che la reperibilità immediata di informazioni standard, impacchettate e regolate dai grandi gatekeeper della rete rischia di provocare, eliminando lo spazio di protesta e dissenso all’interno della società, cristallizzando così il consenso intorno ad una presunta verità assoluta come se vivessimo nella migliore delle società possibili (come fa notare Quit, anche nell’America razzista si pensava che quella fosse la migliore delle società possibili). Ma dobbiamo anche ricordare che il Web è costituito da oltre 550 miliardi di documenti mentre Google ne indicizza solo 2 miliardi, ossia meno dell’uno per cento. In questo contesto è evidente come le reti sociali di distribuzione di contenuti assumono un’importanza sempre più rilevante. E non mi riferisco solo ai social network di massa, ma anche a reti sociali verticali in cui è stata mantenuta una certa indipendenza di pensiero. Questo ha ovviamente anche generato mostri intellettuali, come il complottismo o il fenomeno delle bufale e della disinformazione.

Accusando la rete di essere la causa dell’appiattimento culturale si rischia di correre il rischio di cadere nella trappola di chi accusa Youtube di fomentare il bullismo. Che è poi l’equivalente di accusare il telefono di essere la causa degli attentati dinamitardi quando vengono comunicati via telefono.

Internet, per fortuna, non è esclusivamente elogio del consenso, ma anche spazio all’interno del quale si crea il dissenso. Banalmente, se non fosse stato per la rete saremmo ancora qui a pagare 30€ a CD anche solo per sentire come suoni, e saremmo ancora costretti ad aspettare che passino un film (censurato) sulla RAI per poterlo vedere senza dover andare al cinema. Meno banalmente, gli stessi uomini che hanno dato origine alla cristallizzazione del consenso hanno anche creato praterie digitali all’interno delle quali la parola legalità assume tutto un altro sapore. Mi riferisco ovviamente al Deep Web, in cui è possibile acquistare di tutto, e far girare qualsiasi tipo di informazione. Ma anche piattaforme come Wikileaks o Indymedia e network come Anonymous, che hanno fatto della contestazione e l’abbattimento dello status quo la loro bandiera, vanno in questa direzione seppur col rischio di non essere in grado di comprendere la portata geopolitica delle loro azioni.

Quindi web come cristallizzazione del consenso delle masse ma anche come strumento di organizzazione della contestazione. Del resto, se la disobbedienza diventasse di massa perderebbe tutto il suo significato diventando potere.

Un altro elemento chiave del processo di avanzamento tecnologico riguarda l’accentramento decisionale nelle mani di chi possiede l’oro del ventunesimo secolo: i dati. Dati che vengono raccolti tramite le applicazioni dei nostri telefoni, termostati, occhiali e presto frigoriferi, automobili, conti correnti, eccetera eccetera.

Ancora una volta sono i grandi gatekeeper della rete ad averne le chiavi, molto più di quanto lo siano i governi. Con i dati in loro possesso, i grandi colossi del web possono ambire a predire il comportamento degli individui, praticamente in ogni ambito della vita quotidiana lasciando ben poco spazio di evasione a chi si pone in un contesto di contestazione dello status quo. Ma è sempre in rete che è nato anche tutto il movimento per la richiesta di maggiori Open Data per poter abilitare i cittadini con le giuste conoscenze tecnologiche, allo sviluppo di applicazioni che contribuiscono al progresso.

Inoltre, uno degli elementi che più di tutti può abilitare la contestazione è che la rete ha permesso la circolazione dei saperi fino a un punto in cui chiunque possa creare strumenti che contribuiscano al concetto di progresso cosi come lo abbiamo definito.

Mi riferisco al fatto che nel 2010 il 31% degli studenti statunitensi fosse iscritto ad un corso online, che in rete esistano accademie di programmazione passo per passo, e che ci siano applicazioni che aiutano i contadini del Rwanda a crescere i loro raccolti di caffè. Tutti strumenti che mirano a risolvere problemi che i governi da soli non riuscirebbero a risolvere perché ormai svuotati del loro potere da un’economia ormai troppo avanzatamene capitalista e liberista. E’ inutile, infatti, stupirsi ora del fatto che le istituzioni abbiano delegato ai cittadini il compito di risolvere alcuni dei problemi più pressanti del 21esimo secolo, per perseguire il benessere dell’economia nel suo complesso come volano di miglioramento delle condizioni generai di una società. Quello della supremazia dell’economia di mercato rispetto al perseguimento del bene comune è un concetto che può essere applicato a praticamente qualsiasi cosa degli uomini, incluse le relazioni sociali, i sentimenti, la fruizione dei contenuti e ovviamente la rete (che altro non è che un trasmettitore di contenuti) ed è stato un tema dominante di tutta la narrativa post-bellica del ‘900.

Quindi, ancora una volta, la rete offre uno scenario duale. Da una parte l’accentramento del potere tramite la raccolta dati, dall’altro il decentramento di questo tramite l’abilitazione alla creazione di nuove tecnologie grazie all’accesso a educazione e informazioni.

Quello che voglio dire con questa riflessione, che spero abbia dato sufficienti spunti piuttosto che trovarvi tutti d’accordo, è che è sicuramente legittimo avere dei dubbi su come le nuove tecnologie possano servire una determinata agenda politica centrale. La maggior parte dei network di distribuzione di contenuti non convenzionali e delle conoscenze per abilitare il cambiamento non giungerà mai a pieno nelle mani delle masse, ma è anche vero che mai come ora le armi del cambiamento sono state distribuite nelle mani delle persone comuni e l’evoluzione, e quindi il progresso, dipenderà da come noi sapremo utilizzarle.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments

What do you think?

Scritto da chef

lifestyle

5 milioni di lettori di ebook non sono pochi se l’Italia torna a leggere

innovaizone

Saggini: Perché la Pa usa il fax? L’innovazione la portano le persone