Giornali italiani e social: una relazione complicata

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Manuale di storia per le classi IV e V, anno 2247

«All’inizio del terzo millennio d.C. grandi sconvolgimenti caratterizzarono il mondo di quella che, ai tempi, veniva chiamata “Informazione” e, più in generale, “Editoria”. La crisi di fiducia nei confronti dell’istituzione denominata “Stampa” toccava i suoi apici e la diffusione massiva di Internet non faceva che minare l’autorevolezza dei “giornalisti”, coloro che, fino ad allora, erano i depositari del potere di raccogliere, selezionare e diffondere notizie.

A quei tempi una scoperta sconvolgente – che a voi lettori oggi farà sorridere – aprì nuove, impreviste e imprevedibili prospettive: le persone, dotate di connessione a internet e accesso a spazi di autopubblicazione, tendevano a raccontare ciò che accadeva loro, ciò che facevano, ciò a cui assistevano, che fosse mangiare una fetta di torta di mele o una rivoluzione.

Le persone condividevano e raccontavano, raccontavano e condividevano. E le notizie spuntavano fuori ovunque, da chiunque. I commenti alle notizie venivano formulati ovunque, da chiunque.

La “Stampa” iniziò a interrogarsi su come integrare questo flusso di notizie e informazioni che scorreva incessante. Alcuni sperimentavano l’integrazione di questi flussi nella costruzione delle notizie, altri chiedevano ai propri lettori di inviare foto del fenomeno meteorologico del momento o di dedicare un augurio al proprio padre in occasione della festa del papà. Certo, non tutti i tentativi erano destinati al successo, molti sarebbero stati (fortunatamente) dimenticati in fretta e ne abbiamo notizia solo grazie al ritrovamento di quelli che gli storici chiamano “post” – testi più o meno brevi pubblicati in raccoglitori di testi detti “blog” – che parodiavano o criticavano apertamente detta usanza di sfruttare la naturale propensione degli esseri umani a mettersi in mostra.

Alcuni eventi occorsi in zone periferiche del mondo portarono alla luce l’esistenza di una forma di reazione e resistenza al progressivo inaridimento della funzione del “giornalista”: si scoprì che il lavoro di raccolta, selezione e diffusione di notizie passava anche attraverso il monitoraggio e il filtro delle informazioni che le persone, spontaneamente, condividevano nei propri spazi di autopubblicazione.

Ovviamente questo poneva molti problemi, come ogni novità: come verificare le informazioni che circolavano? Come verificare l’attendibilità di una fonte? Quali strumenti usare per distribuire al meglio i contenuti selezionati e filtrati?

Mentre alcuni pionieri esploravano strade e tentavano di definire modalità e funzioni di una nuova professione alcuni trovavano più interessante rifiutare la novità e sbeffeggiare chi vi si dedicava. Questo non impediva, nei luoghi più avanzati, di raggiungere nuovi traguardi e porsi nuovi obiettivi per un avanzamento collettivo del modo di fare e fruire informazione.

C’era, tuttavia, un angolo di mondo caparbiamente impermeabile al cambiamento. In quella striscia di mondo, per fortuna del tutto trascurabile rispetto al resto, si guardava con stupefatta ammirazione quanto accadeva ovunque altrove, ma guardandosi bene dal tentare di ripercorrere strade già battute, figurarsi aprirne di nuove.

Appurato che la Rete, per come la si conosceva allora, era strumento fondamentale per chiunque avesse un qualsiasi tipo di attività produttiva (dalla fabbricazione di camere d’aria alla ristorazione tailandese, passando per l’editoria) spesso si tentava di ridurre il danno, usando la Rete ma rifiutando categoricamente di capire il perché e, quel che è più grave, il come.

In quell’angolo di mondo l’impossibilità per un organo di informazione di linkare un altro sito era strutturale, dato che per un’intera epoca è impossibile rinvenire fonti che riportino anche un solo collegamento all’esterno.

Era quello un luogo in cui i lettori erano “click potenziali” per aumentare il numero di pagine viste nel proprio sito, non preziosi co-autori delle proprie storie.

Mentre ovunque altrove si rifletteva sui modi per creare connessioni tra contenuti in modo da arricchire l’esperienza del lettore lasciandolo libero di crearsi il proprio percorso di lettura, quello era un luogo in cui le homepage erano un feticcio, principio primo e ultimo di ogni ordine, demiurgo e creatore ultimo di senso.

Più il linguaggio subiva ibridazione, tenendo insieme in un unico discorso parole scritte e pronunciate, fotografie e immagini in movimento più in quel luogo la parola scritta – e la sola parola scritta – veniva caricata di valore.

La carta era adorata come una divinità, se ne evocava continuamente l’odore (del quale, ahimé, non abbiamo precise descrizioni e quindi possiamo solo supporre in cosa consistesse) e veniva continuamente contrapposta a qualsiasi tipo di prodotto digitale che, al confronto, era considerato opera minore, a volte male necessario da sopportare per garantire la sopravvivenza della carta. La separazione tra digitale e carta, in quei luoghi, era così netta che alcuni arrivavano a prendere posizione in pubblico affermando che lo spazio di autopubblicazione di un giornale in nessun modo poteva essere assimilato al giornale e che solo in quest’ultimo era garantita informazione di qualità.

Per fortuna si trattava di un angolo di mondo del tutto trascurabile e il tempo e la natura hanno avuto ragione di tanto caparbia resistenza. Le spinte reattive nulla hanno potuto contro un ecosistema complesso in cui lettori e scrittori avevano ruoli sempre più intercambiabili, la non linearità tipica del digitale forniva infiniti percorsi di approfondimento e diversi possibili linguaggi espressivi, i metadati permettevano la creazione di connessioni, anche inaspettate, tra contenuti, valorizzando gli archivi di notizie e materiali prodotti in precedenza».

Una screenshot tratta dalla pagina Facebook de “Il Messaggero”

Insomma, stringiamo i denti: c’è speranza anche per noi, costretti ad oggi a leggere il social media manager della pagina facebook di un quotidiano che quella pagina non è il quotidiano e che per avere informazione di qualità non si può fare altro che comprare il giornale di carta.

CLAUDIA VAGO

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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