Educare ad innovare: La superbia cognitiva e i nemici dell’innovazione

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Ci sono giorni in cui giri pagina. Non sai quando. Accade. Semplicemente accade. Ci si abbandona a una sorta di libertà creativa e l’ebbrezza ti sfiora e ti contamina. La cosa strana è che mentre l’evento “Educare a Innovare” si svolgeva, molti si sono resi conto che nulla sarebbe stato più lo stesso.

Andiamo con ordine per capire cosa è successo alla facoltà di Ingegneria di Reggio Emilia dove sono stati accostati temi come: mettere i bisogni delle persone al centro della progettazione e dell’innovazione; mantenere nel tempo la creatività che ci caratterizza nell’infanzia; integrare tecnologie e competenze.

Quali grandi potenzialità dischiude l’accostamento di questi tre elementi? Quali cambiamenti profondi può produrre sul modo in cui si educano le persone a costruire il loro futuro?

La domanda fondamentale che molti si sono posti è: “perché proprio a REGGIO EMILIA esperti di Design Thinking e Innovazione di fama mondiale si sono incontrati parlare di educazione all’innovazione?

Semplicemente perché Reggio Emilia è la città che ha sviluppato negli ultimi 40 anni, con il coraggio della sperimentazione e della ricerca ,un processo di Educazione pedagogica che è noto in tutto il mondo.

L’educazione per cui Reggio Emilia è famosa è quella delle scuole dell’infanzia da 0 a 6 anni.

E poi? Che cosa succede dopo?

Quello che succede lo racconta Larry Leifer, professore ordinario a Stanford e “padre” del Design Thinking.

Larry afferma che l’innovazione è una danza dove si rischia di perdere l’equilibrio e l’unico modo di non farsi travolgere è mantenere, anche da adulti, quella creatività che si aveva da bambini.

Larry ci racconta di essersi accorto, qualche tempo fa, che gli studenti di Stanford sono pessimi progettisti, nonostante si ritengano talmente bravi da disporre di una soluzione per ogni problema. In molti anni d’istruzione sono state sviluppate in loro principalmente capacità analitiche, che hanno però mortificato la loro confidenza creativa.

La “superbia cognitiva” delle menti analitiche è nemica dell’innovazione, com’è spiegato in un video affascinante in cui la metafora utilizzata è quella della caccia.

Quando s’inizia a cacciare, si ha solo una vaga idea di dove sia la preda (che per di più è in movimento), dunque bisogna utilizzare un insieme di accorgimenti per avvicinarla, seguirne tracce e, a volte, anticiparne le mosse. Se, fuor di metafora, la preda è l’idea, cioè la soluzione da trovare, allora uno dei principali problemi è proprio quello di trovare la strada per portarla a casa.

Le aziende, ci ricorda Larry, sono in genere strutturate per resistere ai cambiamenti e per uccidere le buone idee. Una cultura dell’innovazione, al contrario, accoglie le idee e le valorizza per il loro potenziale.

Le imprese, proprio quelle che hanno il compito di portare l’innovazione sul mercato, non sono molte volte strutturate per farlo. “Avete presente l’enciclopedia Treccani?” dice Uli Weinberg.

“Rappresenta una struttura del sapere che è stata completamente rivoluzionata e messa in discussione dalla rete, da Wikipedia in particolare, ma non solo. Beh, le imprese, ancora oggi, sono strutturate come un’enciclopedia”. È una metafora che fa riflettere e non a caso.

Christophe Vetterli ci racconta come al Centro di Business Innovation dell’Università di San Gallo in Svizzera il primo obiettivo sia quello di ripensare le strutture interne dell’innovazione. Hanno inventato un modello, che chiamano “Embedded Design Thinking”.

Forzano l’inserimento, all’interno dell’impresa, di un gruppo di studenti che con il loro entusiasmo e la loro creatività contamineranno poi l’organizzazione. Se ci sono riusciti con Deutsche Bank c’è speranza per tutti.

Sullo stesso punto è intervenuto Uli Weinber, direttore della d-school a Potsdam (Berlino) raccontando l’esperienza della costruzione di un’istituzione che ha il compito di educare ai principi del Design Thinking.

Il primo obiettivo che si sono posti è stato quello di creare uno spazio (anche fisico) dove fosse possibile celebrare il fallimento. Il fallimento non è un valore positivo della nostra cultura, ancor di più per le imprese, quindi se si crea un’area protetta dove la produzione d’idee non convenzionali (per questo più rischiose) è consentita, allora si fa il primo passo verso la cultura dell’innovazione, si garantisce quella che molti denominano la fase “divergente” del processo di innovazione.

Il modello pedagogico della d-school si è rivelato molto interessante. L’accesso è libero; nelle classi si massimizza la diversità (culturale, disciplinare…), colui che insegna deve mettere in discussione i propri modelli e i propri linguaggi e i problemi da risolvere arrivano dalle imprese. Il metodo ha talmente successo che Uli pensa che in dieci anni tutta l’Università avrà adottato il loro metodo didattico e le lezioni frontali saranno pressoché scomparse.

Poiché le sfide che il tema dell’innovazione propone sono globali, è nata la rete SUGAR (Stanford University Global Alliance for ReDesign), una rete mondiale di persone e Università (Ingegneria di Reggio Emilia è l’unico nodo in Italia) pronte a accettare i challenges posti dalle imprese e trasformarli in innovazioni.

A questo punto era ormai chiaro a tutti che il Design Thinking è un approccio solido e sperimentato per generare innovazione, un approccio che mette al centro i bisogni delle persone e al suo fianco la ricerca, l’ingegneria e la creatività.

Il problema che rimane aperto è che il problema che rimane aperto è che il potenziale del Design Thinking è limitato spesso da team costituiti da persone che hanno perso nel tempo la loro capacità creativa, mortificata da anni di sola istruzione analitica.

Qui è opportuno ricordare la differenza fra educazione e istruzione, termini a volte utilizzati come sinonimi mentre in realtà non lo sono.

Educazione deriva dal latino e-ducere e significa, letteralmente, trarre fuori.

Pertanto, educare vuol dire trarre fuori dal soggetto ciò che già è insito in lui attraverso la guida dell’insegnante. Istruire, invece, significa “inserire” all’interno del soggetto determinate nozioni come, ad esempio, date, nomi o qualunque altra informazione che possa aumentare le conoscenze. Il flusso è monodirezionale e arriva dall’insegnante. L’alunno, pertanto, è passivo.

In genere le nostre scuole “istruiscono”, mentre a Reggio Emilia “educano”.

In questa distinzione è la caratteristica sostanziale di un approccio che può mantenere nel tempo quella confidenza creativa indispensabile per incidere sulla realtà che ci circonda.

Carla Rinaldi, presidente di Reggio Children, allieva di Loris Malaguzzi e riferimento mondiale per il Reggio Emilia Approach, ce lo racconta ispirando il futuro.

La creatività arriva dalla libertà di sviluppare le proprie idee e condividerle con gli altri. I bambini fanno continuamente ricerca cambiando, attraverso la sperimentazione e la percezione, il loro pensiero. Tutto questo da adulti è dimenticato e per questo si sviluppano preconcetti e paure di sbagliare.

Il Reggio Emilia Approach si rivolge a un carattere centrale dell’uomo: lo sviluppo del pensiero e della creatività. Se riusciamo a mantenere vivo negli adulti quest’aspetto che è tipico dei bambini, allora avremo persone che saranno in grado di “creare” i problemi e vederli come opportunità mettendo sistematicamente in discussione il mondo. E’ questo il fondamento dell’innovazione.

Qui è stato inserito il terzo elemento della giornata: la grande potenzialità che nasce dall’integrazione di tecnologie e competenze.

Tutto ciò parte da un luogo ove la multi-disciplinarietà è veramente possibile perché l’organizzazione non è suddivisa in discipline: Ingegneria di Reggio Emilia.

L’hanno presentata gli studenti, che sono l’espressione più concreta di quest’aspetto, e l’hanno presentata come si fa da queste parti, con i fatti, con il loro progetto d’innovazione promosso da Audi che sarà implementato nelle automobili del futuro. Le grandi opportunità che questo luogo rendono possibili sono diventate tangibili.

Duecento persone hanno ascoltato con attenzione questi interventi, poi, a me, è toccata la conclusione.

Così ho girato pagina e ho detto che se vogliamo fare un cambiamento attraverso l’educazione, il nostro obiettivo non sono gli studenti ma la società attraverso gli studenti.

Per modificare la società è necessario immaginare un luogo ove gli studenti possano imparare a integrare le loro diverse competenze, a innovare il mondo avendo a riferimento i bisogni legittimi e profondi delle persone ed essendo fiduciosi di potere dare forma al futuro con il loro impegno, con il sostegno delle loro relazioni (la loro rete), con quello del Paese e, soprattutto, dell’ambiente che li circonda.

Credo che questo ambiente sia Reggio Emilia.

Solo facendoci guidare da innovazione e creatività, attraverso l’educazione e la cooperazione potremo risolvere i problemi che affrontiamo come società e come cittadini del mondo.

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Matteo Vignoli

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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