È passato un anno dall’incidente tragico che ha colpito il deposito Eni di Calenzano, dove cinque lavoratori hanno perso la vita e altri 28 sono rimasti feriti. Questo evento ha sollevato interrogativi sulla sicurezza e sulla responsabilità delle aziende nel settore energetico. Oggi, il sito si appresta a subire una trasformazione controversa, con l’obiettivo di diventare un hub fotovoltaico, mentre le incertezze legate al processo giudiziario continuano a persistere.
Il disastro e le sue conseguenze
Il deposito Eni di Calenzano, con una capacità di stoccaggio di 160.000 tonnellate, era un punto strategico per i combustibili fossili in Italia. La sua esplosione, avvenuta durante un’attività di manutenzione, ha rivelato gravi lacune nelle procedure di sicurezza. Le indagini hanno messo in luce che, nonostante ci fosse un’attività di manutenzione in corso, il carico e scarico delle autobotti proseguiva, violando le norme di sicurezza.
Questo ha portato a un’inchiesta in corso, con dieci indagati, tra cui sette manager di Eni.
Il prezzo della vita umana
Una perizia ha stimato che fermare il carico delle autobotti per un turno avrebbe significato una perdita di circa 255.000 euro per Eni, una cifra irrisoria rispetto ai profitti annuali dell’azienda. Tuttavia, la vita umana non ha prezzo. Questo incidente ha messo in luce il cinismo del capitale, che spesso si traduce in calcoli freddi e disinteressati alla sicurezza dei lavoratori.
La riconversione e le opportunità di energia rinnovabile
Nonostante il dramma, Eni ha annunciato un risarcimento volontario di 6,5 milioni di euro al Comune di Calenzano, indipendentemente dall’esito della causa. In un tentativo di ripulire la propria immagine, l’azienda ha previsto la trasformazione del deposito in un parco fotovoltaico, capace di produrre 20 Mwp di energia elettrica tramite l’installazione di circa 60.000 pannelli solari.
Una parte dell’energia prodotta sarà destinata al Comune, mentre un impianto dedicato alimenterà un’area sportiva locale.
Le reazioni istituzionali
Le autorità locali hanno accolto con entusiasmo questo progetto, parlando di un passo decisivo verso un futuro sostenibile. Tuttavia, ci si chiede quali siano le reali ricadute occupazionali e se ci sarà un vero controllo pubblico sulla riconversione del sito. Si teme che questa iniziativa possa rivelarsi un’operazione di greenwashing, in cui Eni continua a trarre profitto dalle sue attività tradizionali, lasciando inalterata la sua dipendenza dai combustibili fossili.
Il caso della ex-GKN e la vera transizione ecologica
In questo contesto, emerge la lotta degli operai della ex-GKN di Campi Bisenzio, che da anni combattono per la riapertura dello stabilimento, puntando sulla produzione di pannelli fotovoltaici etici.
Questa vertenza rappresenta un’alternativa concreta alla speculazione immobiliare e alla logica del profitto a tutti i costi. La loro proposta di reindustrializzazione, dedicata a comunità energetiche rinnovabili, si contrappone alla mera operazione di facciata di Eni.
Un futuro sostenibile e giusto
La battaglia della ex-GKN è un simbolo della lotta per una transizione ecologica autentica, che non può prescindere dalla giustizia sociale. La politica industriale italiana sembra ignorare queste realtà, mentre i lavoratori chiedono di essere coinvolti in un processo di riconversione che rispetti il territorio e le persone. La necessità di un cambiamento è urgente, e la riapertura della ex-GKN sarebbe un passo significativo verso un futuro sostenibile.
Infine, il Collettivo di Fabbrica ha lanciato una nuova campagna di crowdfunding per raccogliere fondi necessari a proseguire la lotta e sostenere un modello alternativo di produzione e distribuzione dell’energia.
L’obiettivo è dimostrare che una transizione ecologica dal basso è possibile, contrapposta agli interessi delle multinazionali che continuano a dominare il mercato energetico.

