Da Napster a Uber: perché l’innovazione si muove in una zona grigia

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Innovare significa introdurre una novità o una trasformazione che modifichi radicalmente un dato ordinamento, sia esso politico o sociale, o una determinata metodica come potrebbe essere quella produttiva o tecnica.Questo termine, prepotentemente ricorrente negli ultimi anni, è carico di una valenza positiva: infatti si presume che l‘innovazione abbia finalità migliorative rispetto ad una condizione pre esistente.Innovare pertanto dovrebbe essere recepito non solo come un valore ma anche come una necessità per una società che voglia progredire purchè punti a migliorare la qualità della vita delle persone che vi fanno parte.Il fine ultimo dovrebbe quindi essere il benessere della comunità su cui gli effetti dell’innovazione si producono: sarebbe quindi assurdo schierarsi contro l’innovazione.

Innovare richiede uno sforzo, generalmente d’ingegno, che ha un costo (in talento, formazione o risorse) e che deve essere in qualche comodo coperto.Talvolta è lo Stato a pensarci direttamente o indirettamente mentre altre volte è il settore privato (benchè spesso le condizioni perché ciò avvenga risentono comunque di un primo intervento statale): si pensi ai contributi esistenti per la ricerca (purtroppo in costante riduzione) o agli interventi per la nascita di ecosistemi come la Silicon Valley o quello di Israele.

E’ inoltre evidente che se non è lo Stato (ovvero la comunità stessa) a finanziare l’innovazione, chi utilizza il proprio denaro per far crescere progetti innovativi debba necessariamente maturare un utile proporzionale al rischio d’impresa: tanto questo sarà elevato, quanto più importanti dovranno essere i ritorni.Quindi l’innovazione non solo deve comportare dei vantaggi ma deve anche, e soprattutto se alla base vi sono degli investimenti privati, produrre e ritornare ricchezza: è per questo motivo che chi finanzia progetti innovativi si pone obiettivi di ritorno dell’investimento particolarmente ambiziosi.Considerando che solitamente l’innovazione ha un impatto dirompente sulla società, il territorio e l’economia, ne deriva che sia possibile maturare decuplicare il proprio investimento nel giro di pochi anni.

Ma quali compromessi è etico accettare per raggiungere determinati traguardi?Ultimamente è scoppiato il caso Uber, con l’introduzione sul mercato italiano di UberPop la cui mancata presentazione in seguito alle proteste di alcuni tassisti ha scaturito diverse reazioni e una presa di posizione abbastanza chiara del dicastero dei Trasporti e delle Infrastrutture.

Uber ha il merito di introdurre modalità alternative e innovative per il trasporto passeggeri su gomma, esattamente come AirBnB sta facendo per il mercato del turismo basato sull’ospitalità resa da privati.Entrambe sono sicuramente realtà estremamente interessanti e ad alto impatto, prova ne sia che entrambe abbiano ricevuto più round di investimento da parte di Venture Capital di una certa caratura e che ora godano di una valutazione molto alta.Ancora più interessante forse il fatto che siano dei facilitatori all’interno di dinamiche ben consolidate nel mondo reale (trasporto e turismo) piuttosto che esperimenti leggermente più scollati come potrebbero essere piattaforme digitali come Foursquare o Pinterest.

Uber e AirBnB sono due aziende rappresentative della cosiddetta sharing economy che, insieme ad altre piattaforme come quelle di car pooling o car sharing attive sul territorio (da Blablacar a Car2go, ENI Enjoy o ATM GuidaMI per citarne alcune), stanno diventano estremamente popolari anche grazie alla contestuale crisi economica.Tuttavia entrambe queste realtà stanno mietendo successi e aspre critiche: se Uber viene fortemente osteggiato dentro e fuori i nostri confini anche AirBnB ha i suoi problemi.

Perché questa resistenza all’innovazione? E soprattutto, è lecita o auspicabile?Personalmente non amo le manifestazioni incivili come quella del Wired Next Fest 2014 anche se va detto che spesso le rimostranze silenziose non sono altrettanto incisive.Relativamente a Uber, che forse è il tema più caldo al momento, non entro nel merito del confronto anche perché le posizioni sono arroccate su differenti interpretazioni normative anche se c’è chi ha provato a fare un pò di chiarezza. E’ spontaneo chiedersi perché, qualora la normativa sia così chiara, non vi sia stata una presa di posizione netta a favore, spegnendo definitivamente tutte le polemiche, o contro, bandendo la piattaforma dal mercato: delle due l’una.La verità è che quasi tutto ciò che punta a fare disruption si muove su una zona grigia, spesso non chiaramente regolamentata, per cercare di muovere masse critiche di utenti fino ad indirizzare cambiamenti sistemici: si pensi all’evoluzione della distribuzione della musica in formato digitale, da Napster all’attuale Spotify o gli attuali sistemi p2p e torrent.

Il gioco di sfumature può diventare incredibilmente sottile in relazione al comportamento degli utenti: una piattaforma del tutto legale, come ad esempio quella di Uber o AirBnB che si occupano formalmente di intermediazione, si trovano ad affrontare dei problemi perché coloro che sfruttano le rispettive applicazioni per promuovere i propri servizi possono farlo impropriamente o apertamente in contrasto con la normativa vigente.La prospettiva di poter generare o integrare il proprio reddito monetizzando la condivisione di beni in disponibilità o mettendo sul mercato le proprie capacità e tempo spesso determina il soprassedere su adempimenti normativi (necessità di patentini, licenze, certificazioni, …) e fiscali (dichiarazione degli introiti) danneggiando, de facto, chi professionalmente eroga servizi equiparabili e che è ovviamente soggetto a determinati requisiti pena onerose sanzioni.

Ne deriva che possa essere improprio o illecito l’uso che si fa di queste piattaforme digitali di intermediazione e non lo strumento di per se stesso: del resto anche un cacciavite può essere brandito come un’arma, la colpa è del cacciavite (o del suo produttore) o di chi lo impiega impropriamente?Certo è che bisognerebbe chiedersi fino a che punto questi usi impropri siano state preventivamente valutati dai creatori e gestori delle varie piattaforme digitali: è evidente che prima di sviluppare un business di tale natura qualcuno una qualche idea se la sia anche dovuta fare e sicuramente sarà apparso chiaro a cosa si sarebbe andati incontro.

E a voler pensar male (che come diceva qualcuno è peccato), occorrerebbe domandarsi se l’effetto non sia in qualche modo voluto poichè gioca sulla psicologia dell’utente che è portato ad approfittare di una potenziale nuova sorgente di redditività, specie in periodi di crisi economica, senza considerare l’esistenza di normative forse troppo stringenti o poco attuali ma comunque presenti e quindi da rispettare.E qui veniamo ad un problema ben più grande che è cioè quello inerente alle normative vigenti e alla ratio con cui il legislatore ha deciso di regolare la materia.Sicuramente è necessario che l’iter legislativo sia più snello e in grado di tenere conto dell’evoluzione tecnologica che inevitabilmente sta cambiando il nostro mondo.Inoltre vanno considerate le differenze fra Stati e le logiche di armonizzazione del mercato: i più grandi problemi odierni sono dipesi infatti dalle differenze fra Paesi riguardo alle politiche sociali, ai diritti dei lavoratori e alla materia fiscale.In questo scenario infatti la concorrenza fra attori transnazionali può essere inizialmente a favore del consumatore per l’abbattimento dei prezzi, ma nel lungo periodo espone lo stesso alla nascita di nuovi monopoli o pratiche di dumping.

Come può infatti generarsi una sana competizione se fra i concorrenti c’è chi esercita politiche di pricing aggressivi grazie all’unfair advantage determinato da strategie di ingegnerizzazione fiscale portate all’estremo? Si pensi al confronto fra IBS e Amazon che di fatto competono nel medesimo segmento o al presunto schema societario di Uber.

Il pagamento delle imposte da parte delle attività digitali nel luogo in cui si produce reddito è un argomento che andrebbe affrontato in modo serio: la web tax non è l’unica strada perseguibile e anzi non dovrebbe esserla se formulata come proposta tempo fa. Ciò però non significa che il concetto di rivedere l’imposizione per le internet company sia erroneo o inopportuno: è evidente che il mancato pagamento delle imposte sulla redditività generata nel dato Paese pone l’elusore in una condizione di concorrenza sleale nei confronti dell’impresa locale che invece quelle imposte deve pagarle interamente.

Non si tratta di fermare il futuro, ma stabilire dei criteri seri, sensati e da applicare rigorosamente affinchè l’innovazione possa essere dirompente ma al tempo stesso eticamente sostenibile: una forma di pirateria etica scevra di interessi esclusivamente speculativi. E quale metodo migliore se non essere trasparenti? Si può e si deve fare disruption, rompere gli schemi per favorire un cambiamento positivo della e per la società: ma questo deve potersi applicare in modo trasversale.

E’ sicuramente possibile unire settori distanti come il digitale ed il reale facendo in modo che entrambi ne traggano beneficio. Nel caso del trasporto pubblico non di linea sarebbe sufficiente realizzare un’unica applicazione nazionale che sia comoda, funzionale, funzionante e soprattutto trasparente.Uno Stato illuminato lo dimostra anche nella determinazione di schierarsi apertamente a favore dell’innovazione imponendo che l’essere dotati di una licenza comunale per l’esercizio del trasporto passeggeri pubblico su piazza implichi, ad esempio, l’obbligo di appartenere ad un circuito di prenotazione tecnologico unificato che effettui per i tassisti ciò che Uber svolge abitualmente per gli NCC.

E i primi che dovrebbero richiedere a gran voce questo strumento dovrebbero essere proprio gli agitatori delle proteste contro Uber perché, in caso contrario, si paleserebbe una qualsivoglia forma di interesse occulto nel mantenere confusionario il sistema di prenotazione, pagamento e fatturazione della prestazione arroccandosi dietro al mantra che “esistono già le applicazioni per prenotare una vettura”.

Migliorare le regole è lungimirante, rispettarle è un dovere, eluderle o trasgredirle è incivile a prescindere che si tratti di una persona fisica o una persona giuridica.

Milano, 28 maggio 2014FEDERICO FRATTA

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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