Cultura e crowdsourcing in Afghanistan: così ho vinto il Rolex Awards

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Ormai ci siamo. Lo posso finalmente dire, anche se ancora faccio fatica a crederci.

Oggì Plain Ink ha avuto l’onore di ricevere il Rolex Awards for Enterprise (categoria Young Laureate) un premio che dal 1976 viene assegnato a progetti coraggiosi e visionari in vari ambiti, dalle esplorazioni alla cultura, passando per scienza, tecnologia e ambiente.

Un premio che l’Italia non vedeva da quasi vent’anni, e dove l’accento viene posto sulla parola enterprise, impresa, nell’eccezione più alta del termine: quella della sfida, appunto.

Una sfida che quest’anno vede premiati progetti per lo sviluppo di vaccini ‘secchi’, più facili da somministrare e conservabili senza la catena del freddo, e il primo smartphone touchscreen per ciechi, tra gli altri.

E poi ci siamo noi di Plain Ink che, con il progetto The Qessa Academy, lavoriamo per mostrare anche un altro ambito di intervento delle startup – quello della conservazione culturale – in un Paese che di startup ne vede ben poche: l’Afghanistan.

Già, Afghanistan. Un posto che, aldilà dei luoghi comuni e delle analisi spicciole di geopolitica, mantiene un fascino particolare, forse per la bellezza dei suoi paesaggi o forse per essere sempre stato il punto focale di un percorso fisico che ha rivoluzionato sì il commercio, ma che ha anche contribuito a diffondere idee, filosofie e invenzioni.

Ed è proprio di diffusione della cultura che The Qessa Academy si occuperà, aprendo una scuola a Kabul per aiutare giovani disoccupati a imparare il mestiere di cantastorie da anziani che rischiano di vedere quest’arte scomparire con loro.

The Qessa Academy supporterà questi giovani nella creazione di nuove narrative orali che possano contenere anche messaggi di salute pubblica, mitigazione dei disastri naturali e partecipazione, affinché riescano a trovare lavoro dal principale datore del Paese: le ONG e gli enti locali di sviluppo.

Il 68% della popolazione ha meno di 25 anni di età e si trova a fronteggiare una disoccupazione pari al 40%, diventando facile preda di gruppi con scopi discutibili.

In una nazione dove 7 persone su 10 sono analfabete, l’oralità ricopre un ruolo fondamentale nella trasmissione di informazioni e nozioni basiche di qualsiasi tipo.

Il progetto però, non si ferma qui: grazie ad una piattaforma di crowdsourcing, coinvolge anche la diaspora Afgana nella raccolta, archiviazione e promozione delle storie tramite il sito di riferimento, nella speranza di cominciare a usare mezzi differenti per la creazione di una narrazione comune e intergenerazionale che possa riscoprire e andare fiera delle proprie radici.

Forse molti sorrideranno per la nostra ingenuità e per l’aspetto low-tech di questa startup.

Altri magari criticheranno il fatto di identificare la creatività come possibile leva per un futuro diverso, in un Paese dove manca quasi tutto e i problemi di cui occuparsi sono infiniti.

Qualcuno però ricorderà magari che nel 1935, il New Deal degli Stati Uniti prevedeva, tra le varie misure, l’utilizzo dell’arte e della cultura come forieri di lavoro e di sviluppo in un Paese soffocato dalla crisi, quando interventi classici non diedero i risultati sperati.

Certo i tempi sono diversi, le necessità altre e le complessità maggiori. Anche questa però, è una sfida che merita attenzione e risposte concrete, in un Paese che ha perso molto, troppo.

Per questo, vale almeno la pena provarci.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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