Così l’informazione può prevenire i danni dei disastri ambientali

scienze

“Sarebbe pensabile fare fronte a un’emergenza pubblica senza che i mass media vengano coinvolti?”. A raccogliere la provocazione lanciata dai Centers for Disease Control and Prevention (CDC), l’agenzia federale, afferente al Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani degli Stati Uniti d’America, deputata a monitorare, prevenire e suggerire gli interventi più appropriati in caso di epidemia in un manuale intitolato Crisis and Emergency Risk Communication è stato Valerio Cogeduti, ricercatore in comunicazione della Scienza alla Sissa di Trieste, nella sua tesi. Titolo: “Il giornalismo al tempo del terremoto. La comunicazione del rischio sismico nelle testate locali”.

“Si tratta ovviamente di una domanda retorica, afferma nelle premesse del suo lavoro di ricerca, la cui risposta non può che essere di segno negativo.

Tanto che si abbia a che fare con il rischio di un contagio diffuso quanto che si sia alle prese con un terremoto, se non ci fossero gli organi di stampa, sarebbe praticamente impossibile per le autorità preposte alla protezione civile riuscire a informare i cittadini sulla natura della crisi e dare loro indicazioni appropriate per ridurre il numero dei danni dei disastri ambientali” precisa Codeduti.

Dove è nato il tuo interesse nell’indagare il rapporto fra i terremoti e la loro narrazione giornalistica?

“Prima di tutto dall’esperienza diretta del terremoto dell’Aquila, il 6 aprile 2009. Quel giorno toccai con mano le conseguenze catastrofiche di una cattiva comunicazione del rischio sismico. E non parlo solo dell’operato della Commissione Grandi Rischi, ma anche della carenza strutturale in Italia di una vera cultura della prevenzione.

Da questo punto di vista, un ruolo delicato lo svolge anche la narrazione mediatica del terremoto. Mi sembra che molto spesso arrivi quando ormai è troppo tardi, solo all’indomani di gravi tragedie. Manca del tutto una narrazione “preventiva”, come se il problema venisse collettivamente rimosso”.

Su quale campione ti sei basato e da quali premesse metodologiche sei partito? e perchè concentrarsi sulla stampa locale?

La ricerca si è svolta in due momenti distinti. In una prima fase ho intervistato un campione ristretto di addetti ai lavori: 11 giornalisti di testate locali e 5 sismologi. Questo lavoro preliminare mi è servito a individuare gli aspetti più interessanti da trattare. Successivamente mi sono avvalso di un questionario online di 29 domande. Ho inviato il questionario a oltre 600 giornalisti, 108 dei quali hanno scelto di partecipare.

Mi sono rivolto in prima istanza a giornalisti di testate locali di Abruzzo, Calabria ed Emilia Romagna, le tre regioni che, quando è nato questo progetto di ricerca, erano state coinvolte più di recente da fenomeni sismici significativi. Non mi solo limitato solo alla carta stampata, ma ho incluso nell’indagine anche televisioni, radio, web tv, siti di informazione e blog. Ho scelto di concentrarmi sulla dimensione locale dell’informazione, perché è soltanto a questo livello che vengono riportati anche gli eventi sismici più piccoli. Ed è qui che le popolazioni interessate cercheranno informazioni su cosa sta accadendo. La stampa nazionale invece dà notizia solo delle scosse più forti, come è normale che sia.

Come valuti, alla luce degli ultimi eventi sismici che abbiamo vissuto in Italia, il rapporto fra la stampa locale, le sue fonti e le comunità colpite?

Il rapporto tra la stampa locale e le istituzioni scientifiche e di protezione civile mi sembra insoddisfacente, sia in termini quantitativi che qualitativi. È un rapporto fatto di incontri fugaci e occasionali, relegati per lo più alle fasi di gestione delle emergenze, quando i margini per informare la cittadinanza e pianificare una risposta efficace sono molto ridotti. In queste circostanze trovano terreno fertile incomprensioni, attriti e sospetti reciproci.Si rischia ogni volta un cortocircuito comunicativo, di cui fa le spese la cittadinanza. I media e le loro fonti dovrebbero impegnarsi a sviluppare un confronto e un dialogo anche in tempi di quiete, quando è più facile instaurare un clima collaborativo.Invece il rapporto tra la stampa locale e le comunità colpite è spesso di tipo empatico. I giornalisti condividono con i propri lettori gli stessi vissuti di apprensione, ansia, paura, tragedia.

La stampa nazionale viene vista con diffidenza, perché, non conoscendo la realtà del territorio, si abbandona alla retorica e agli stereotipi, e perché a volte assume un approccio predatorio nei confronti della notizia, teso a spettacolarizzare la catastrofe e poco rispettoso del dolore delle vittime.

Il giornalista locale invece è percepito come un presidio di autenticità, veridicità, umana partecipazione. Questo legame fiduciario potrebbe rappresentare una grande risorsa per costruire una cittadinanza consapevole dell’importanza della prevenzione.

Dalla tua ricerca, quali sono gli aspetti positivi e negativi che emergono nella figura del giornalista in contesti di emergenza?

Tutti i giornalisti che ho intervistato ci tenevano a raccontarmi come è cambiato il loro lavoro nei giorni dell’emergenza. Alcuni hanno subito gravi lutti familiari, altri hanno visto distrutta la propria casa, la sede lavorativa, la strumentazione. La loro capacità di fare fronte a quelle circostanze drammatiche, di rispondere alle avversità, di raddoppiare il proprio impegno, di reinventarsi a volte il proprio mestiere di reporter, per superare ogni genere di ostacolo e offrire un servizio di qualità al pubblico, mi è sembrata un’impresa eroica ed encomiabile.

Un aspetto problematico è certamente l’eccessiva visibilità concessa a personaggi poco attendibili e alle loro teorie sulla previsione dei terremoti. Le esternazioni poco ortodosse di “scienziati fai da te” non possono essere riportate sullo stesso piano delle opinioni espresse dall’intera comunità scientifica. Questa modalità può andare bene per la cronaca politica, ma quando invece si parla di scienza andrebbe rispettata una qualche gerarchia nell’autorevolezza delle fonti, altrimenti si corre il rischio di diffondere informazioni infondate e aspettative illusorie tra la popolazione.

E qual’è dal tuo osservatorio il loro rapporto con la tecnologia?

Il web e i social media sono strumenti utili per i giornalisti durante un emergenza sismica. Il 54% degli intervistati ha dichiarato di consultare il sito dell’INGV per conoscere i parametri della scossa. Ma ancor prima che i dati siano pubblicati, molti giornalisti sono già in grado di farsi un’idea sulla localizzazione del sisma controllando le segnalazioni dei propri contatti su Facebook e Twitter. Al tempo stesso però sui social network circolano anche molte bufale e un bravo giornalista deve sapersi difendere da questo genere di insidie.

A quali conclusioni sei giunto e qual’è stata la reazione dei mass media a questa retroanalisi?

L’aspetto più interessante che ho potuto rilevare è che tra chi i terremoti li studia e chi li racconta esiste una sorta di barriera comunicativa. È paradossale, perché sismologi e giornalisti la pensano allo stesso modo su molti punti, eppure quando si confrontano durante un’emergenza sembrano non capirsi. Così il dialogo tra le parti risulta sterile e non produce informazioni utili per i cittadini.

La tesi che sostengo è che questa incomunicabilità sia frutto di una scarsa conoscenza dei rispettivi metodi, limiti, esigenze e modi di operare. Ciò determina incomprensioni e diffidenza reciproca.

La buona notizia è che questo vuoto può essere colmato, e dovrebbe essere compito, nonché interesse, di un grande istituto di ricerca come l’INGV instaurare con i media un rapporto proficuo e collaborativo. La cattiva notizia è che finora troppo poco è stato fatto da questo punto di vista.

Entrambe le categorie però mi sono sembrate molto consapevoli dei problemi legati alla comunicazione del rischio sismico e anche disposte a mettersi in gioco per provare a risolverli.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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