Cos’è la gig economy e perché i governi sul lavoro digitale devono cambiare tutto

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Qualche giorno fa rientravo dall’Alphaville camp, un evento piuttosto interessante, organizzato dal Financial Times: un momento di approfondimento sull’innovazione radicale, messo insieme a partire dal punto di vista delle istituzioni finanziarie: “Peace, Love, Higher Returns” è infatti il motto della giornata a testimoniare l’incontro dei due punti di vista.

Credits: blog.fiverr.com

A Londra ho avuto il pregio di condividere un panel con Henry Farrell, agguerrito professore della George Washington University, gli arcinoti David Galbraith e Indy Johar, Will Page di Spotify e il sempre diretto Aral Balkan fondatore di Ind.ie, del quale, di recente, abbiamo potuto assistere all’infuocato talk della OuiShare Fest che ha puntato il dito contro la schiavitù alla cultura dominante della Silicon Valley e del capitalismo cognitivo.

Aiutato dalla giornata del caldo record in Luglio in UK, Il panel intitolato “The Winner Takes All Model – The Path to tech godhood” ha preso fuoco piuttosto velocemente. Il discorso, focalizzato sul tema delle grandi piattaforme digitali – come le GAFA (Google Apple Facebook Amazon) o quelle della Sharing Economy – che oggi riescono a dare vita a grandi mercati globali, mobilitando le possibilità del cittadino produttore.

I temi toccati sono stati tanti: ovviamente si è parlato di quanto queste piattaforme siano realmente rispettose dell’individuo o quanto lo considerino solo un pezzo della catena del valore; si è discusso di quanto queste dinamiche di innovazione siano rispettose della società nel suo complesso e di quanto si portino appresso spesso le solite strutture di potere.

Si è parlato ovviamente anche della tendenza di queste piattaforme a diventare grandi monopoli (da qui “winner takes all”), spesso in di mercati nuovi, resi possibili dalla penetrazione della tecnologia, e ancora solo parzialmente regolamentati.

La On Demand Economy: un tema globale

In altri spunti interessanti si è messa a fuoco la “globalità della questione”. Innanzitutto, crescono i contrasti tra i giganti digitali e gli attori pubblici Europei, anche in materia di antitrust. Alcune legislazioni europee (come le norme a tutela della privacy o del diritto all’oblio) stanno dettando direttive piuttosto stringenti a molte compagnie americane – in generale aumentano i casi di legislazione locale con effetto globale e la globalizzazione della discussione sulle regole.

Inoltre è chiaro come sia difficile regolamentare fattispecie economiche per cui non esiste ancora un accordo concettuale e una condivisione “politica”: sono fenomeni nuovi? O solo un tentativo di “deregolamentazione” tout court che rende monetizzabile qualunque cosa? Sono forse nuovi stili di vita o solo l’evoluzione del precariato nell’era digitale?

Nell’immobilismo generale – o nella lentezza istituzionale – spesso subentrano i giudici con decisioni che sembrano arbitrarie.

In questi giorni turbolenti, in una Parigi messa a dura prova da continue rivolte dei tassisti, abbiamo assistito perfino all’arresto di due manager di Uber, tra cui Gore-Coty, che solo pochi giorni fa calcava il palcoscenico della OuiShare Fest: qualcuno è stato meno incline alla discussione ed è passato ai fatti.

D’altronde non è stato un periodo semplice neanche oltreoceano per la compagnia della U: qualche giorno fa è stata multata di circa 7 Milioni di dollari, per aver rifiutato di dare informazioni sulle sue pratiche di business, su cose come le circostanze in cui i driver rifiutano le corse o sull’accessibilità per i disabili. Molto più complicata da digerire però, per Big U, è stata la discussa decisione che la California Labor Commission ha preso a giugno, sostanzialmente classificando gli Uber driver come impiegati e non come liberi professionisti.

La discussione su questa tema è stata tale negli Stati Uniti da spingere l’Economist, sull’arcifamosa rubrica Schumpeter, a esprimersi con parole dure sulla regolamentazione che troppo spesso in America (come in Europa) è fatta a colpi di corti, giudici e commissioni. Secondo l’Economist, “i politici devono riconoscere che la gente vuole lavorare con orari più flessibili e che la tecnologia ha reso possibile la creazione di mercati spot fatti di surplus di lavoro e di risorse inattive. Ma devono anche riconoscere che in questo caso lo stato necessità di aumentare le tasse per pagare estensioni dei servizi pubblici e benefici. Data la natura disfunzionale della politica, tali cambiamenti prenderanno un bel po ‘di tempo […] fino ad allora i giudici dovrebbero lasciare aperto il maggior numero possibile di opzioni. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è l’imposizione di rigide interpretazioni di leggi obsolete che uccidono queste nuove imprese e sabotano i posti di lavoro”. Altrimenti, conclude il settimanale britannico, “a fare così e si finisce come la Francia”.

E le prime vittime di quest’approccio alla regolamentazione si vedono già: Homejoy, scoppiettante startup della Silicon Valley che forniva “on-demand house clearing services” chiuderà i battenti proprio in seguito alla decisione della corte californiana. In una, solo parzialmente condivisibile intervista con Re/Code, Adora Cheung addossa proprio a questa notizia ultima eventuale drammatica decisione di chiudere bottega: “è stato un problema di tempistica ma la decisione su Uber della commissione è stata gonfiata a dismisura” – d’altronde già in Marzo Homejoy aveva affrontato una causa civile sugli stessi temi, la regolamentazione della sua forza lavoro…”on demand”.

La distopia made in San Francisco

Mentre la Gig Economy vive i suoi “growing pains” visioni distopiche si levano talvolta nella blogosfera e ci aiutano a riflettere: leggendo questo bel pezzo di Lauren Smiley potete sentirvi per qualche minuto come un dipendente di una delle aziende rampanti della Valley o della New York dei consulenti…lavorare così tanto che tutti i vostri fabbisogni saranno soddisfatti solo attraverso app on-demand; la spesa, la lavanderia, le pulizie, il cibo; possibilmente senza mai guardare negli occhi l’altra faccia della medaglia della gigeconomy, i lavoratori: come dice GrubHub: “Tutto il bello del mangiare, con in aggiunta la bellezza di non dover parlare con la gente”.

Perfino Hillary Clinton ha toccato il tema in un recente discorso di presentazione della sua candidatura, dicendo che “molti americani stanno facendo soldi extra affittando una piccola stanza, progettando di siti web, vendendo i prodotti che essi stessi progettano a casa, o addirittura guidando la propria auto. Questo on-demand, o cosiddetta gigeconomy sta creando importanti economie e scatenando l’innovazione. D’altra parte essa sta anche sollevando domande difficili sul lavoro sul ruolo delle protezioni sociali e su e quello che sarà l’aspetto di un “buon lavoro” in futuro”.

Per regolamentare un mercato digitale ci vogliono governi digitali

Possiamo dire con certezza dunque che il quadro non è chiaro. Di certo si capisce come le nostre moderne istituzioni burocratiche, e non solo le organizzazioni pubbliche ma anche le grandi aziende messe in difficoltà da questi disruptors snelli e rapidi, appaiono inadeguate a stare dentro la “terza era digitale”.

Oggi l’organizzazione pubblica, a maggior ragione quella che si occupa di regolamentare, deve essere basata sui dati che raccoglie e analizza, deve essere adattativa, veloce e sperimentale: l’utente – il cittadino in questo caso – deve essere sostenuto e abilitato a creare valore, sostenibilità e nuova conoscenza per se e per gli altri pari.

Purtroppo, quando ci soffermiamo a guardare le nostre pubbliche amministrazioni la situazione è spesso contraria: nella maggior parte dei casi i policy maker non riescono a far fronte alle aspettative di esperienza dell’utente (cittadino) usando i pur tanti dati e le tante informazioni che potrebbero raccogliere – se non raccolgono già – e sono lungi dal qualificarsi come “governi abilitanti” che creano una “esperienza di cittadinanza” personale e arricchente di opportunità.

Come ho avuto modo di dire già, a tutela dell’ambiente locale (in un contesto globale) per l’innovazione e lo sviluppo economico è fondamentale per i responsabili politici superare l’approccio basato sul dare “permessi” e passare a un approccio che – prima di regolare l’economia – preveda una immersione profonda nell’era dell’informazione, mediante l’attuazione di politiche nuove guidate dai “dati” verso obiettivi che sono co-creati con i cittadini e le comunità. Per fare questo abbiamo bisogno di organizzazioni amministrative dalle caratteristiche nuove con confini permeabili e funzioni abilitanti e che dunque muovano presto i primi passi nell’affrontare quella rivoluzione copernicana organizzativa (di cui, tra altre cose, si parlerà al Forum sul design delle organizzazioni a Milano in Ottobre).

In poche parole, per regolamentare un mercato trasformato dal digitale abbiamo bisogno di governi digitali.

In conclusione, il tema della regolamentazione di questi nuovi modelli economici è dunque un tema si parzialmente tecnico, ma che risulta altrettanto un tema politico: riguarda la capacità del governo locale, nazionale e Europeo di raccogliere informazioni e dati e elaborare scelte e strategie non ideologiche ma che diano allo stesso tempo interpretazioni forti quando, sul piano globale, non si intravedono risposte facili.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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Scritto da chef

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Che bravi quei prof che ti accendono la passione per l’innovazione