Bella, immaginifica, vera: l’aria a Palermo vent’anni dopo Borsellino

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Palermo, 19 luglio. È l’anniversario dell’attentato mafioso a Paolo Borsellino e la sua scorta. Aldo Pecora è andato là per ricordarli tutti. Ecco la seconda parte del suo diario. (Leggi qui la prima parte).

Ore 21:00, 18 luglio – Via Maqueda. Nel cortile della facoltà di Giurisprudenza si tiene l’ormai consueto convegno promosso da “Antimafia duemila”. E quest’anno, in piena polemica tra Quirinale e Procura, gli animi sono vistosamente accesi. C’è tantissima gente, almeno un migliaio di persone. C’è Leonardo Guarnotta, membro dello storico “pool antimafia” di Chinnici e Caponnetto ed oggi presidente del Tribunale di Palermo. Ha sfilato silenziosamente in corteo con decine di cittadini palermitani dietro lo striscione di un’associazione che precisa: «siamo qui, ma a modo nostro, in silenzio.

Perché condividiamo quello che dicono le “Agende rosse” ma non i metodi».

Corsi e ricorsi storici: c’è lo stesso sindaco di vent’anni fa, Leoluca Orlando. Ci sono loro, attesissimi, i magistrati della procura di Palermo, Nino Di Matteo e Roberto Scarpinato. Manca Antonio Ingroia, ma arriverà. Ci sono i giovani e i cittadini. Tanti e diversi, ma ci sono.

Scambio qualche parola con la gente presente tra il pubblico. Seppur con toni differenti, sono parecchie le critiche rivolte al Presidente della Repubblica. Ma l’apice di veemenza si raggiunge quando si parla dell’ex ministro Mancino. Se per il Capo dello Stato, nonostante qui non giochi certo in casa, c’è spazio per i ragionamenti, a lui nessuno fa sconti proprio nessuno.

Il convegno inizia con oltre un’ora di ritardo.

A fare gli onori di casa è il preside, che con un eccezionale coup de théâtre strappa applausi scroscianti quando a sorpresa tira fuori dalla carpetta la tesi di laurea di Paolo Borsellino e la consegna al fratello del giudice. Arriva Antonio Ingroia, che all’ingresso viene subito raggiunto da decine di giornalisti. Quando il Pm si avvicina al cortile il pubblico scoppia in un boato. Tifo da stadio. «Ingroia, Di Matteo, Scarpinato, siete voi il nostro Stato».

Ma non staremo esagerando un pochino? Per carità, la mia stima per questi magistrati era ed è enorme, ma io un film simile l’ho già visto purtroppo qualche anno fa e spero vivamente che non sia l’anticamera di uno o più eventuali ingressi in politica anche per loro.

Spero di sbagliarmi. Non mi sbaglio, purtroppo, sul formarsi di squadre e tifoserie: ci sono quelli che, soprattutto nel panorama istituzionale ma anche tra la società civile, confidano e difendono quello stesso Presidente Napolitano che proprio qui, a Palermo, lo scorso 23 maggio, invocava giustizia e verità sulle stragi con le lacrime agli occhi e quelli che, in massima parte alla manifestazione di questa sera, vedono nei magistrati di Palermo un avamposto di democrazia.

Cui prodest? Difficile stabilirlo. Certamente la mafia non disdegna un clima sempre più aspro. Vedremo come andrà a finire. Le lancette dell’orologio segnano l’una e mezza. Lasciamo l’università e ci incamminiamo verso l’albergo.

19 luglio 2012, ore 06:00 – Ho messo cinque sveglie ad intervalli di cinque minuti l’una dall’altra. Dovevo riuscire a mettere assolutamente i piedi giù dal letto. Volevo assolutamente rimettere in ordine gli appunti e i ricordi della prima giornata e scrivere la prima parte di questo diario. Ci riesco. Ma col caldo (e la stanchezza) che c’è per svegliarsi davvero qui ci vuole una bella doccia ghiacciata. Ottimo.

Ore 8:45 – È tardi. Il telefono, poi. È sempre così: quando non hai niente da fare è quiete totale, quando corri contro il tempo squilla ripetutamente! Ho appena inviato la mail a Riccardo e Lorenzo senza neanche rileggere cosa avevo scritto. Giusto centoventi secondi per concedermi il lusso di una colazione-lampo sul terrazzino dell’albergo. Caffè, una spremuta d’arancia rossa, un biscotto ed un bicchiere d’acqua.

Di corsa giù per le scale. Alessandro e Silvia sono giù ad aspettarmi. Lasciamo l’albergo ed in taxi ci dirigiamo verso via Mariano d’Amelio. Alla radio la voce roca di un giornalista macina e impasta freneticamente più volte sempre le stesse tre parole: strage, Borsellino, scorta. La scorta. La scorta. La scorta. Ma perché diamine non diamo anche a queste vittime la dignità di essere citate per nome?

Agostino, Emanuela, Walter, Claudio, Vincenzo. Ricordo che una volta fu proprio Salvatore Borsellino a raccontare di una madre che, dopo la strage, alla domanda di un cronista rispose «mio figlio si chiamava scorta». È vero. Di queste giovanissime vite spezzate, tutti ragazzi della mia età, sembra importarci poco o nulla. E la colpa non è solo delle istituzioni e dei media. La colpa è anche e soprattutto nostra, degli “addetti ai lavori”. Siamo distratti, superficiali, ignoranti.

Agostino, Emanuela, Walter, Claudio, Vincenzo. Nella frazione di secondo che ha preceduto la detonazione, nell’ultimo istante della loro vita, non hanno avuto altro da dare al loro giudice se non i loro corpi. Gli si sono stretti tutti intorno, formando uno scudo umano. In quel abbraccio, in quella comunione laica di carni dilaniate, ci sono un affetto ed un eroismo incommensurabili.

Non si chiamano “scorta”. Si chiamano Agostino Catalano, Emanuela Loi, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli. Erano «i ragazzi di Paolo». Erano solo dei ragazzi.

Ore 9:00 – Eccoci qui. Lo spiegamento di forze di Polizia e Carabinieri è quello delle grandi occasioni. Tra autovetture e camionette ci saranno almeno una decina di mezzi. Gli striscioni appesi alle inferriate delle palazzine chiedono «Verità sulle stragi». Ci sono i banchetti allestiti dalle “Agende rosse”, con magliette, spille e gadgets della giornata. L’albero fatto piantumare tanti anni fa dalla madre del giudice è colmo di lettere, pensieri, strisce di stoffa colorate.

A terra siedono una trentina di bambini, piccoli e piccolissimi, che fanno domande a Rita, l’altra sorella del giudice Borsellino. Nelle loro maglie c’è scritto “io sorrido”. Sì. Il clima è di festa e non di lutto. Perché Paolo Borsellino quel 19 luglio di ventanni fa non è morto. Ed è giusto – e bello – ricordarlo così.

Mi sento chiamare: «Aldo, Aldo!». È Gaetano Porcasi, il “pittore antimafia”. Tra le mani tiene una tela impaccata con della carta e dello spago: la vuole dare in dono a Salvatore e Rita. Arrivano i ciclisti disabili di “a ruota libera”, una maratona promossa da “Libera”, l’associazione fondata da don Luigi Ciotti. E con loro c’è anche lui, premuroso, sorridente, instancabile. Gli sussurro all’orecchio: «hai saputo della riapertura delle indagini a Reggio?».

Sì, perché dalle mie parti in questi giorni tengono banco le dichiarazioni del pentito Nino Fiume nel dibattimento del processo “Meta” a Reggio Calabria. Secondo Fiume, Cosa Nostra tentò di coinvolgere la ‘ndrangheta nelle stragi, ma i reggini preferirono un basso profilo. Unica deroga, secondo il pentito, fu l’eliminazione del giudice Antonino Scopelliti. Un favore. Un delitto, anche questo, che per anni è rimasto impunito. Adesso si è aperto uno spiraglio. Don Luigi – che dal 2007 sta accanto a noi di Ammazzateci tutti ed alla figlia del giudice Scopelliti, Rosanna, in questa solitaria battaglia di testimonianza e verità – aveva saputo. Mi abbraccia e si raccomanda: «dì a Rosanna che ce la faremo, anche per il suo papà. Ce la faremo».

Ore 12:00 – Lasciamo momentaneamente via d’Amelio per andare al Palazzo di Giustizia, dove anche l’Associazione Nazionale Magistrati (il cui distretto palermitano è presieduto dal pm Nino Di Matteo) promuove una propria manifestazione in ricordo di Borsellino. L’aula magna è stracolma. Ed ecco, finalmente, i politici. In prima fila il presidente della Camera, Gianfranco Fini, il senatore Lumia, l’onorevole Granata, la neo-presidente della Commissione parlamentare antimafia europea, Sonia Alfano, fatta sedere, ironia della sorte, proprio accanto al leader del suo ex partito, Antonio Di Pietro.

Tra le prime file c’è anche Francesco Gratteri, a mio avviso il più bravo poliziotto d’Italia. Purtroppo è finito anche lui nella spirale di condanne in seno ai vertici della Polizia di Stato per l’incursione alla scuola Diaz durante il G8 di Genova. Qualcuno dirà “è la giustizia, bellezza!”. Ed io sono il primo a condannare ogni abuso della forza pubblica: quindi, se Gratteri è stato in un modo o nell’altro responsabile di quegli abominevoli pestaggi del 2001, allora proprio perché è un bravo poliziotto ed un bravo capo, è giusto che paghi.

Ma Francesco Gratteri, Ciccio, come lo chiamano tutti i suoi colleghi e centinaia di magistrati antimafia, è il più preparato acchiappamafiosi d’Italia. Quattro anni di interdizione dai pubblici uffici e carriera distrutta. Anche qui, la mafia ringrazia. Fuori dall’aula, dopo aver salutato il grande Felice Cavallaro, noto nell’atrio che da sulle scale una bacheca: è piena di locandine di manifestazioni su Borsellino, alcune anche con date concomitanti. Quella bacheca è una fotografia impeccabile della frammentarietà della società civile e al tempo stesso di quanto l’esperienza ed il ricordo dell’eroico giudice palermitano riesca ad unire emisferi asimmetrici e trasversali.

Al termine dei lavori riesco finalmente ad intervistare Di Matteo. Ci sistemiamo in un corridoio che lungo tutto il lato è costituito da enormi finestroni. Forse è anche per questo che più l’intervista va avanti e più sudiamo vistosamente entrambi, ma quella che porto a casa è senza dubbio una delle più belle e vere interviste che io abbia mai fatto.

Ore 15:30 – Dopo aver addentato un panino con la salciccia alle spalle del quartiere Capo, ritorniamo a via d’Amelio. Alla spicciolata arrivano decine di magistrati, sindaci, poliziotti e carabinieri in borghese, semplici cittadini, fino a riempire, poco a poco, tutta la via. Siamo tutti lì, insieme. Chi l’avrebbe mai detto! Più tardi arriva anche il Procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso. Ci incrociamo, lui finge una smorfia ammonitrice, poi sorride e mi fa un cenno che solo io e lui possiamo decodificare. Ha ragione, Procuratore, ma o sto qui, o sto lì…!

I rumori delle sirene, delle radiomobili e delle pale degli elicotteri sembrano dissolversi. Qui, in via Mariano d’Amelio, si respira un’aria estremamente surreale. Non saprei come descriverla, ma so che è bella, immaginifica, vera.

Ore 16.58 – Sono passati ventanni. Paolo, Agostino, Emanuela, Walter, Claudio, Vincenzo. Sono passati ventanni. E siete ancora tutti qui.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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