Arte e pubblicità: Lost in translation

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Sono finiti i tempi in cui noi professionisti della pubblicità potevamo attingere alla sconfinata ispirazione artistica proveniente dalla cultura intellettuale più in voga. Quando headline e bodycopy erano firmate da Eugenio Montale o Umberto Saba, marchi e poster erano disegnati da Dudovich o Depero e le scene del Carosello erano girate da Federico Fellini, Sergio Leone, Ermanno Olmi, Gillo Pontecorvo, Pier Paolo Pasolini.

In tempi più recenti siamo riusciti a maltrattare il povero Tonino Guerra ridotto a macchietta dell’ottimismo, i nostri migliori registi usano gli spot come facili bancomat estemporanei ed è dai tempi di Folon per il metano della Snam che non si vede un po’ di arte sui manifesti pubblicitari delle nostre città.

Quando è successo che l’estetica dell’advertising ha rinunciato a qualsiasi cifra artistica? Quando abbiamo smesso di considerare la poesia, la pittura, il cinema, la fotografia d’autore come possibili vettori creativi dei nostri messaggi commerciali? Perché la pubblicità moderna ha dismesso qualsiasi velleità culturale, riducendosi a uniformare la propria grammatica dentro clichè universali, buoni per tutte le stagioni, con testimonial intercambiabili, narrazioni prevedibili e misere provocazioni che usano il sessismo come scorciatoia per distogliere l’attenzione dalla totale assenza di una qualsiasi idea.

Neanche la rivoluzione in atto è riuscita a scardinare una poetica pubblicitaria sempre più avvitata intorno ai suoi stessi ritornelli. L’esplosione di internet, l’euforia dei social network e gli entusiasmi che si sono levati intorno alla comunicazione digitale non sono riusciti a modificare un atteggiamento che anche in rete ha trovato il suo fertilissimo brodo di coltura. Banner, pagine Facebook, video virali e altre amenità pubblicitarie dell’ultima ora, non sembrano purtroppo scalfire le difese immunitarie di una pubblicità sempre più divergente da qualsiasi forma d’arte o di sperimentazione in questo senso.

Gli ultimi mecenati rimasti sembrano essere gli uffici marketing e comunicazione delle più prestigiose maison di moda, dove uffici stile e direttori creativi si affidano alle intuizioni artistiche di autori riconosciuti a livello internazionale.

Ma il lusso sceglie l’arte per costruire una cortina fumogena intorno ai suoi marchi e prodotti. Non lo fa per avvicinare, ma per aumentare la distanza con le masse. Non ha nulla a che a vedere con le intuizioni pedagogiche che furono dell’ingegner Olivetti, per esempio. L’arte diventa come il latino di Don Abbondio, un linguaggio ermetico che deve incutere rispetto ed evocare il privilegio di pochi.

Ma per fortuna non tutto è perduto. La Rai ha annunciato il rilancio del Carosello che dopo oltre 35 anni torna sui nostri schermi televisivi. Alle 21 di ogni sera, su Rai 1, la stessa sigla annuncerà 210 secondi di “buona pubblicità”. Un contenitore che viene presentato dai vertici della tv di stato come un vero e proprio “reload” della trasmissione originale.

Per offrire 3 spot da 70 secondi in una striscia del palinsesto di prima serata che punta a riscoprire una produzione pubblicitaria “di qualità”.

Le premesse non mi sembrano granchè incoraggianti e temo che il nuovo Carosello sia solo un estremo tentativo di recuperare parte di quegli investimenti pubblicitari che negli ultimi anni hanno disertato gli schermi televisivi per atterrare su monitor e display.

Del resto, abitiamo un Paese che costringe un quasi novantenne a rinnovare il proprio mandato presidenziale per evitare una catastrofe istituzionale. Cosa volete che sia riproporre sotto mentite spoglie una nostalgica operazione culturale, per illudersi di salvare la catastrofe mediatica che sta attraversando la nostra comunicazione?

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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Scritto da chef

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