Altro che “perduta”: 7 storie di giovani della generazione “ritrovata”

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«Molti giovani non colgono le tante possibilità di lavoro che ci sono o perché stanno bene a casa o perché non hanno ambizione». Parola di John Elkann, presidente di Fiat, pupillo della famiglia Agnelli e ultimo in ordine di tempo a cimentarsi con definizioni azzardate e fuori luogo da affibbiare ai giovanissimi. Pochi giorni fa ha sentenziato che i giovani dovrebbero dimostrarsi più determinati e uscire di casa. Secondo Elkann in tanti non trovano lavoro perché stanno bene coi genitori: proprio questo ha detto, salvo poi smentire se stesso qualche giorno (e qualche agenzia) dopo.

Ma è proprio così? I dati – spaventosi – sembrano all’apparenza venire incontro alle tesi di Elkann. Soprattutto quelli sulla disoccupazione giovanile – 41.6% raggiunto nel novembre dello scorso anno, livello massimo dal 1977 e un aumento di quattro punti percentuali su base annua – fotografano una situazione drammatica.

Anche a seguito di queste percentuali negli ultimi mesi si sta incrementando il numero di coloro che restano sotto lo stesso tetto con mamma e papà. Numeri da capogiro: secondo un’elaborazione della Coldiretti sull’ultimo rapporto della coesione sociale (ovvero quello con dati Istat 2012) sono circa 7 milioni i giovani tra i 18 ed i 34 anni che vivono con almeno un genitore. Per la precisione 6 milioni 964 mila. Un’infinità. Tra questi oltre tre milioni hanno tra i 25 ed i 34 anni. Si tratta di ragazzi in attesa di autonomia. Così ha evidenziato Dario Di Vico alcune settimane fa sul Corriere: «La permanenza sotto lo stesso tetto non è negativa solo perché segnala un mancato assorbimento di nuove leve nel mondo del lavoro, ma anche perché allunga il ciclo di adolescenza, arrivando a creare una figura ibrida come quello dell’adulto-giovane».

Eccoli allora i giovani che albergano in casa, poco ambiziosi secondo il parere del rampollo di casa Fiat. Il quale – c’è da dire – non è il primo (e si teme non sarà l’ultimo) a pronunciarsi su questa fascia sociale: choosy, impreparati, inadeguati, bamboccioni. E poi la generazione perduta, tornata prepotentemente d’attualità per bollare coloro che stanno provando ad entrare nel mondo del lavoro, una moltitudine di giovani che si allunga fino ai quarantenni e che spesso li supera. Lo ha scritto il Financial Times in un dossier che ha fatto il giro del mondo. Lost generation, l’ha intitolato, dedicandolo ai giovani usciti dalla grande crisi finanziaria del 2008: chi è riuscito ad entrare nel mondo del lavoro in quegli anni si troverà uno stipendio del 12% inferiore e con debiti per l’istruzione sulle spalle superiori del 60%, così ha sentenziato.

“Questo è ciò che si è. Questo è ciò che tutti sono. Tutti voi, giovani che avete prestato servizio nella guerra, siete una generazione perduta”. La frase venne pronunciata dal proprietario di un’officina parigina ad un giovane meccanico che non era riuscito a riparare una macchina. La si legge in “Fiesta”, primo romanzo dello scrittore americano Ernest Hemingway. Il termine ombrello si riferiva a quel gruppo di giovani che raggiunse la maggiore età proprio durante gli anni della prima Guerra Mondiale. La guerra di un tempo e la guerra di oggi, con una crisi senza eguali. Guerre diversissime, ma con situazioni di forte disagio.

La generazione perduta è stata oggetto di citazione anche dall’ex Presidente del Consiglio Mario Monti, nel corso di un’intervista al settimana Sette che suscitò una infinità di polemiche: «Facciamo il possibile per limitare i danni alla generazione perduta, ma soprattutto impegniamoci seriamente a non ripetere gli errori del passato, a non crearne altre di generazioni perdute».

Ma altro che perduta, questa generazione. Non si è mai data così tanto da fare, arrabattandosi in situazioni nelle quali le precedenti – di generazioni – non si sono mai trovate. Una generazione che sta combattendo una battaglia impari contro una crisi di sistema, una crisi del lavoro, una crisi di valori e con un mercato che mantiene di fatto poltrone e strapuntini sempre e soltanto per i soliti noti. Dovrebbe essere il contrario, semmai. La generazione incollata alle poltrone e pienamente coinvolta in prebende di ogni tipo dovrebbe essere etichettata come quella perduta. Perché non saprà mai più mettersi in gioco, in discussione.

Indipendentemente dalle battute dovremmo pensare a raccontare qualcos’altro. E il che –lontano da ogni fraintendimento – non significa fingere che la crisi non ci sia. Nient’affatto. Semmai significa provare a declinare la storia con un segno più, a presentare modelli al positivo che popolano il nostro paese, a creare una narrazione che mostri esempi virtuosi da seguire. E ce ne sono tanti, in ogni angolo d’Italia. D’altronde non abbiamo bisogno di eroi ma di modelli. «Il modello insegna a vivere, l’eroe a morire. Il modello si snoda nel tempo e mostra coerenza, coraggio rispetto. L’eroe si consuma nella frazione di un attimo straordinario e persino folle», ha scritto Vittorino Andreoli nelle sue “Lettere al futuro”.

Ecco allora sette storie che mescolano tradizione e innovazione, storie con un’impronta giovane e non giovanilistica, storie che raccontano coraggio, impegno, passione, storie che presentano una generazione ritrovata che fa da contraltare a quella perduta, semmai ce ne fosse stata.

1. Silvia, designer per passione e professioneVentottenne, designer romana ma cittadina del mondo, costantemente connessa anche per lavoro. Silvia Massacesi realizza borse e accessori green e vende tutto online. «Ma l’eco-sostenibilità non è una moda, è uno stile di vita», precisa Silvia, che nel laboratorio si occupa di tutto: dalla progettazione delle collezioni ai contatti con i fornitori. La sua start up s’è aggiudicata un finanziamento regionale. «Per il futuro punto al mercato estero, è lì che il made in Italy è molto apprezzato».

2. Ela, la sarta che arriva da lontanoEla Siromascenko a ventinove anni dalla Romania ha deciso di trasferirsi in Italia. Dopo una laurea in marketing, un master in relazioni pubbliche, un dottorato di ricerca in scienze della comunicazione ha aperto una sartoria che esporta soprattutto all’estero, grazie alla rete. L’ha chiamata Elonchka, ed è un negozio online su Etsy, la più grande bottega artigiana al mondo. «Se uno il lavoro non ce l’ha se lo inventa, e per me è andata così. Il quartiere generale di Elochka si trova in una delle stanze dell’appartamento dove vivo col mio fidanzato. Abbiamo una stanza come atelier: ho un tavolo grande per il taglio, tre macchine da cucire tra cui una industriale, il tavolo del computer e della stampante, il manichino, l’asse da stiro e pure due faretti per la fotografia e le scatole delle buste per la spedizione», ha raccontato Ela.

3. Angelina, l’agronoma dal business verdeAngelina Muzzu è una trentanovenne agronoma. Il suo business è verde, come la speranza di fare impresa in Italia. A Tissi, paesino del sassarese, produce cosmetici naturali a partire da oli di oliva extravergini o da oli declassati, ovvero elementi che altrimenti sarebbero destinati alla raffinazione. Il tutto con processi totalmente carbon free. «Produco anche spugne vegetali pregiate ed ecologiche da una pianta tropicale». I suoi prodotti sono acquistabili su Lunadicoros.it. Angelina non ha dubbi sulla ricetta per fare impresa green: «Occorrono attitudine al rischio, un buon talento imprenditoriale, tanta cultura agricola ed informatica e un pizzico di fortuna».

4. Giovanni, l’artigiano salentino nel mondoDa avvocato praticante ad appassionato imprenditore. Giovanni D’Elia, trentaduenne di Veglie, in provincia di Lecce, esporta grazie alla rete l’artigianato artistico del Salento. Online vende da due anni e ora ha un mercato consolidato anche all’estero. «Internet è una vetrina importante non solo per i prodotti, ma anche per promuovere il territorio», precisa. I suoi genitori sono stati entrambi artigiani: mamma sarta e papà fabbro. «Sono cresciuto tra fili, forgia e Commodore 64. Poi ho scelto di studiare diritto, ma non ho mai abbandonato l’informatica». Ora con il suo socio Tiziano Cozzolino partecipa a fiere e mercatini in ogni città d’Italia. Perché l’artigiano digitale sa anche andare oltre la rete.

5. Martina, l’azienda agricola in rete

Per fare impresa green occorre controllare la filiera presidiando il processo e continuare a fare ricerca. La pensa così Martina Buccolini, ventiseienne di Macerata. Oggi Martina lavora nell’azienda agricola di famiglia, innestando la cultura del digitale. «Sono operaia all’interno del laboratorio alimentare, coltivatrice nel frutteto, segretaria in ufficio e addetta alla comunicazione». Per Martina oggi è fondamentale essere disposti a svolgere diverse mansioni, ed è un must essere sempre aggiornati. La sua azienda racconta i prodotti sui social network e nel sito web. Poi intervista i clienti, che promuovono a pieni voti il vino di Visciole o la marmellata di peperoncini.

6. Matteo, il cappellaio per niente matto

Matteo Gioli ha ventisette anni ed è un cappellaio e designer fiorentino. Di sé dice di avere come segni particolari barba e cappello, quest’ultimo rigorosamente autoprodotto. Da ottimo artigiano digitalizzato le sue creazioni le presenta e le vende in tutto il mondo grazie alla sua piattaforma. Matteo comunica con i suoi clienti con i social network e Instagram è il suo preferito. «Nel lavoro artigiano ciò che fa la differenza è la cura maniacale del dettaglio».

7. Giacomo, Andrea, Claudio, Matteo e l’inglese per professione

Quattro giovani italiani stanno facendo imparare l’inglese in rete. Perché il loro obiettivo è far trovare ad altri giovani un lavoro all’estero. Giacomo Moiso, Andrea Passadori, Claudio Bosco e Matteo Avalle vivono tra Torino e Londra. Dopo un passato nei laboratori di ricerca oggi gestiscono Fluentify, una piattaforma per mettere in contatto chi vuole migliorare l’inglese con tutor madrelingua selezionati. «Da giovani imprenditori in rete il nostro tratto distintivo è saper gestire l’incertezza, prendendo decisioni in breve tempo».

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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