15 anni di giornalismo digitale in Italia: Quali prospettive?

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Alla conferenza stampa vennero pochi colleghi. Ma l’Ansa fece un lancio: «Firenze: nasce Reality Magazine, una palestra per il giornalismo web». Era il 1997. Insieme a Marco Bardazzi avevamo fondato il nostro primo magazine online con l’intenzione di sperimentare il giornalismo digitale di cui tanto si parlava Oltreoceano. Il giorno ci davamo i «buchi» come cronisti di giudiziaria, io a «La Nazione», lui all’Ansa (deve essere per questo che fecero un take sull’iniziativa…), la notte ci trovavamo da un provider fiorentino poco distante dal bar del Necchi di Amici Miei. Ci aveva messo a disposizione due computer collegati via modem (56k, se non sbaglio) e una piattaforma per realizzare il nostro «Reality Magazine», sul quale il provider avrebbe dovuto vendere la pubblicità (ovviamente mai arrivata).

Fu su Reality Magazine che, con un gruppo sparuto di giornalisti fiorentini, muovemmo i primi passi nel giornalismo online. L’Ansa tornò a occuparsi di noi in occasione del processo a Pietro Pacciani, accusato di essere il mostro di Firenze insieme ai cosiddetti «compagni di merende». Nel corso di una udienza, per indagare la personalità dell’imputato, il pubblico ministero mostrò una lunga serie di disegni del contadino che erano stati sequestrati nella sua casa di Mercatale. Fogli di carta e album da disegno (uno, secondo l’accusa, era appartenuto alle vittime tedesche uccise nel 1983), su cui Pacciani aveva schizzato a matita animali domestici e selvatici che rivelavano un tratto piuttosto raffinato per un uomo che aveva sempre lavorato nei campi. Fotocopiammo tutti i disegni,mostrati in aula e quindi a disposizione delle parti, e nella notte li pubblicammo su Reality Magazine.

Poter mostrare ai lettori (pochi) quello che nessun giornale avrebbe potuto pubblicare, se non altro per motivi di spazio, ci parve un’opportunità straordinaria.

Stavamo sperimentando le potenzialità del web: il racconto esteso, la multimedialità, la possibilità di abbinare storie e fonti, di uscire dai limiti di spazio imposti dalle gabbie del menabò. Il giorno dopo, in uno dei tanti take sul processo Pacciani, l’Ansa riportò la notizia della pubblicazione dei disegni su Reality Magazine.

In quegli anni, i siti dei pochi quotidiani italiani online erano piuttosto «bulgari»: testo, poca grafica, raro uso di immagini. Le photogallery sarebbero diventate campo di battaglia quotidiana tra Corriere.it e Repubblica.it solo a partire dal 2002.

Più scoprivo le straordinarie opportunità che il mezzo offriva al giornalismo, più mi convincevo che il giornale per cui lavoravo, «La Nazione», avrebbe dovuto sbarcare sulla rete.

Presentai al direttore un progetto che, probabilmente, rimase in qualche cassetto. La bolla della new economy doveva ancora arrivare e gli editori, ad eccezione del gruppo l’Espresso, sembravano poco interessati a cimentarsi su un business che non prometteva guadagni immediati. La maggior parte dei giornalisti italiani, in quegli anni, ignorava la rete. Non era tutta colpa loro. Nelle redazioni posta elettronica e internet non erano ancora diffusi. Fax e dimafonierano i principali mezzi per trasmettere i pezzi, l’archivio cartaceo la fonte per cercare vecchie informazioni.

L’esperienza maturata nelle notti di «Reality Magazine», sarebbe tornata utile un paio di anni più tardi. Era il febbraio 1999. Mauro Tedeschini, neo direttore de «La Nazione», mi chiamò nella sua stanza: «L’editore vuole portare i giornali del gruppo su internet, ho fatto il tuo nome, te la senti». No, non me la sentivo.Ero un cronista di giudiziaria, un autodidatta sul web e, soprattutto, non avevo esperienza di progetti digitali. Ma se chiedevano a me, evidentemente nel gruppo c’era poco di meglio. Fu così che dalla mia bocca uscì: «Sì». Un sì che avrebbe impresso una svolta nella mia vita professionale.

Incontrai Andrea Monti Riffeser a Bologna pochi giorni dopo. Da editore puro, aveva un vantaggio: quando decideva che una cosa doveva essere fatta non metteva tempo nel mezzo. «A luglio dobbiamo essere online con tutti i nostri giornali», «Quotidiano Nazionale, «La Nazione», «il Resto del Carlino» e «il Giorno».Mi ritrovai in un acquario, un grande open space a vetri di viaPaolieri, sede de «La Nazione», affacciato sul Duomo e il campanile di Giotto. Fu un buon inizio. Ma, ancor più importante, mi dettero carta bianca per mettere in piedi una squadra di dieci giornalisti pescando nelle varie redazioni e con alcune assunzioni mirate. L’esperienza più formativa fu però l’opportunità di costruire un sistema editoriale web partendo da zero.Nella primavera del 1999 la Poligrafici Editoriale prese una decisione strategica per accelerare l’entrata nel mondo dei bit, rilevando una quota di Dada, società web che di lì a poco avrebbe fatto il suo ingresso in borsa. Per supportare lo sbarco in internet dei giornali del gruppo fu deciso di sviluppare un sistema editoriale proprietario. Il giorno lavoravamo per mettere in fila tutti i tasselli: grafica, redazione, tecnologie, marketing, pubblicità ecc.La notte, nella sede di Dada, poche strade de «La Nazione», il mitico Tim, un inglese che dormiva di giorno e lavorava solo di notte, raccoglieva le nostre esigenze editoriali per trasformarle in un codice che non ho mai capito.Non ce ne rendevamo conto, ma in America l’avrebbero chiamata startup. Nacque Edit, un sistema editoriale che allora, nella primavera del 1999, presentava più o meno le stesse funzioni che oggi offre WordPress. Sfortunatamente, non continuammo a implementarlo. Credo che Dada l’abbia anche commercializzato per un certo periodo. Avevamo fatto un pezzo di strada, avevamo unito le competenze giornalistiche a quelle dei programmatori.Avevamo gettato le basi per qualcosa che avrebbe potuto diventare un prodotto di mercato. Ma siamo in Italia, lingua e certe abitudini non stimolano le visioni di ampio respiro. Avevamo realizzato quello che ci serviva per pubblicare in digitale. E questo ci bastava.

I siti del gruppo Poligrafici Editoriale sbarcarono puntualmente in rete nel luglio del 1999. Ad aggiornarli una redazione di una decina di giornalisti della quale ero diventato direttore, saltando in un colpo solo tutti i gradi della professione.Un avamposto isolato e incompreso dai colleghi: «Ma che fate tutto il giorno in quella stanza a giocare con i computer», era il tormentone che rivelava un misto di commiserazione e preoccupazione.Trascorsero mesi prima che l’accesso a internet e alla posta elettronica venisse aperto a tutti i giornalisti del gruppo.Da allora, anche i colleghi della carta cominciarono a capire cosa stavamo facendo. Quando si è piccoli si deve inventare qualcosa di diverso per farsi notare, per restare a galla, crescere. Puntare su innovazione, sperimentazione e notizie poco battute dai concorrenti, ci parve una buona soluzione. Avevamo davanti una «mission impossible»: «Corriere della Sera» e, soprattutto, «la Repubblica» che sul digitale era partita meglio di tutti. Decidemmo di essere imprevedibili nelle scelte editoriali, ma anche di lavorarli al corpo: come un pugile tecnicamente più debole provammo a sfiancarli.Quando partimmo con la redazione di Quotidiano.net, Repubblica.it lavorava più con il passo di un periodico che con quello di un quotidiano. Negli Usa c’erano già siti che aggiornavano 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Da noi no. Repubblica.it, allora praticamente senza concorrenti veri, poteva permettersi di staccare il venerdì sera per riprendere gli aggiornamenti il lunedì mattina. Non ricordo con precisione gli orari, ma da quello che vedevamo dall’esterno dovevano essere più o meno dalle 8-9 di mattina alle 19-20 la sera, o poco più. Ricordo, invece, con precisione, che la settimana di Ferragosto del 1999 il sito «chiuse per ferie». I lettori scarseggiavano nei giorni feriali, figuriamoci in pieno agosto. Lasciarono dei servizi programmati che ogni giorno rinfrescavano l’apertura del sito. Come un magazine, appunto.

Noi non avevamo scelta: per crescere dovevamo infilarci in tutti gli spazi non presidiati dai concorrenti. Introducemmo abitudini che allora ci apparivano barbare (i giornalisti fanno tardi la notte e dormono la mattina finché possono). Ma, visto come sono poi andate le cose, sarebbe stato comunque inevitabile. Così inaugurammo turni che iniziavano alle 6 del mattino e finivano alle 2 del mattino successivo. La redazione si fermava solo per un arco di 4 ore e non saltavamo un giorno: non c’erano né Ferragosto né Natale, né tantomeno l’ultimo dell’anno del 2000. Si era diffusa la psicosi del Millennium Bug, un difetto informatico nella rappresentazione delle date che avrebbe mandato in tilt i computer di tutto il mondo. Lo passammo in redazione a monitorare cosa sarebbe successo ai vai fusi orari di passaggio dal secondo al terzo millennio. Nulla, per fortuna.

Per allargare l’orizzonte dei nostri lettori, creammo anche duecanali: uno in inglese e l’altro in cinese. L’edizione inglese ebbe anche risvolti commerciali. Grazie a un’intuizione dell’editore, che in quegli anni guardava con interesse al successo editoriale di Usa Today, realizzammo l’European Marketplace, un luogo virtuale dove proponevamo ai mercati stranieri prodotti italiani.Stringemmo una partnership con il sito di Usa Today. Ma la possibilità di affidare la proprie fortune allo sviluppo dell’e-commerce era, evidentemente, ancora un’illusione.

I primi anni pionieristici furono di assoluta libertà, anche perché pochi fra i colleghi della carta capivano veramente cosa stavamo facendo. Sperimentavamo, poteva capitare anche di imbattersi in progetti innovativi dei quali, però, sfortunatamente, continuavano a sfuggirci tutte le potenzialità. Eravamo focalizzati sulle news, il nostro vecchio piatto forte, e non capivamo il valore delle piattaforme e della componente «social», connaturata a internet, che in pochi anni sarebbe esplosa cambiando di nuovo il nostro modo di lavorare. Ci mancava una visione «made in Usa».

L’Italia era un paese all’avanguardia nella diffusione dei cellulari. Fummo tra i primi ad utilizzarli per la diffusione delle news. Ma non riuscimmo ad abbracciare una visione più ampia di quello che avremmo potuto fare. Lo avrei capito solo dieci anni dopo, nell’agosto del 2009, durante la prima visita alla sede di Twitter, a San Francisco.I telefoni cellulari avevano cominciato a diffondersi dopo i Mondiali di calcio di Italia ’90. Alla fine del decennio era diventato comune vedere per strada persone che parlavano al cellulare, mentre negli Usa era ancora una rarità. Partendo dall’idea che i cellulari avrebbero avuto un ruolo di primo piano nella diffusione dell’informazione, nella primavera del 1999 studiammo e sviluppammo insieme a Tim un progetto che ci avrebbe consentito di inviare notizie e pubblicità sui cellulari attraverso la rete Gsm.

La prima notizia destinata a raggiungere le tasche degli utenti partì alle 10,30 di lunedì 16 agosto 1999. Inviavamo da 3 a 5 notizie al giorno per ogni testata: «Quotidiano Nazionale», «il Resto del Carlino», «La Nazione» e «il Giorno». In 160 battute raccontavamo cronaca e sport. Il modello di business prevedeva il servizio gratuito per gli utenti e la vendita di messaggi promozionali abbinati ad alcune notizie. I ricavi sarebbero stati spartiti con Tim. Commercialmente l’operazione non dette i risultati sperati. Ma dal punto di vista del servizio ottenne, invece, un certo successo.Per calibrare meglio il servizio, che in pochi mesi raggiunse 120.000 utenti, avevamo previsto una sorta di interattività con i «lettori». Gli abbonati che ricevevano le news potevano infatti inviare messaggi di risposta alla redazione.

Ecco alcuni esempi di quella «conversazione»:19/08/99 15:11:15 – vogliamo in tempo reale info su strade code incidenti… 29/08/99 13:20:51 – Thank you so much for welcoming me in your headlines service! 30/08/99 13:46:27 – per conoscenza a Cesena c’è la pizzeria… (omissis)… che non rispetta i bambini 04/09/99 18:57:51 – la ferrari ancora una volta ha dimostrato poca riconoscenza a un pilota leale come irvine scrivetelo grazie 04/09/99 16:38:51 – vorrei informarvi che stamattina alle ore 08.30, in calabria, a guardavalle prov cz, c’è stato uno sbarco di 216 clandestini, tra questi, 50 sono bambini. 05/09/99 20:10:14 – ieri chi ha vinto la partita di basket! La kinder?05/09/99 17:25:49 – abbiamo varcato ora ferrara sud! Tutto bene senza code! 05/09/99 12:34:36 – la vostra encomiabile iniziativa che mi informa di notizie utili, non mi fa sentire mai solo e mai lontano da bologna. Grazie e continuate.05/09/99 19:18:47 – Mi permetto di correggere la notizia riguardante la città + verde d’Italia: secondo quanto riportato da Radio 105, la città + verde e risultata Catanzaro!09/09/99 04:01:19 – ci piacerebbe avere notizie sul superenalotto! Vi dispiace? 10/09/99 09:42:03 – mi puoi mandare informazioni sul traffico autostradale

Purtroppo, davamo un’importanza relativa a questi sms. Per noi avevano il valore di un feedback che ci aiutava a correggere il tiro sulle notizie. Riletti anni dopo, alla luce di Twitter, hanno il sapore amaro di un’occasione mancata. Ancora una volta non avevamo capito.

Raramente le innovazioni digitali sono venute dal mondo dell’editoria che, piuttosto, si è trovato quasi sempre nella condizione di dover rincorrere. Quei messaggi nascondevano l’abc dei social media e del giornalismo partecipativo. Erano tentativi di «conversazione» che noi lasciammo cadere nel nulla.Chi chiedeva informazioni stradali, chi su una partita di basket, chi correggeva una notizia, chi denunciava una pizzeria e chi uno sbarco di clandestini, chi, semplicemente, aveva voglia di conversare.

Twitter è stato progettato e disegnato in due settimane nel marzo del 2006. Quasi sette anni dopo.Perché l’Italia, che sulla telefonia mobile era avanti rispetto agli Stati Uniti, non è stata in grado di inventare una piattaforma di altrettanto successo? Mi ero dato alcune risposte: 1. La lingua non permette di pensare in grande. 2. Scarsa visione sui mercati globali. 3. Poca attitudine al rischio di impresa, a investire capitali sulle proprie e altrui intuizioni.

Altre risposte le fornì in seguito lo stesso Biz Stone, co-fondatore di Twitter con Evan Williams, in occasione di una seconda visita alla società, nel febbraio 2010. La situazione era completamente cambiata. I 50 ragazzi piegati sui computer dell’anno precedente erano diventati 140 e la sede, dal vecchio edificio nella periferia industriale di San Francisco, era stata spostata in un palazzo nuovo su Folsom, dieci minuti a piedi da Union Square, cuore commerciale della città.Stone, un ragazzone americano che sembrava aver appena appoggiato a terra lo zaino della scuola, condensò in sei punti le fondamenta su cui si basava il social network:

1. lo scambio aperto di informazione ha un impatto positivo sulla società;2. il prototipo di Twitter è stato costruito nel 2006 in due settimane partendo da un binomio vincente: creatività e semplicità;3. quando siamo partiti la gente diceva: «Twitter è divertente da usare, ma non è utile». Io rispondevo: «È come il gelato»;4. nel 2007 la svolta, ad Austin, nel Texas: stavamo assistendo a una serie di conferenze quando, improvvisamente, una serie di persone si alzarono e uscirono. Cosa era successo? Avevano saputo comunicando con Twitter che la conferenza in corso nella sala accanto era molto più interessante;5. Twitter riguarda il trionfo delle persone non delle tecnologie;6. ci sono più persone intelligenti fuori la compagnia che dentro.La controprova che la gente utilizzava Twitter per dare informazioni arrivò nel 2008: durante i roghi che martoriarono la California gli utenti segnalavano in tempo reale i fuochi, contribuendo all’intervento tempestivo dei vigili del fuoco per domarli.Un’esperienza che si è ripetuta in tutto il mondo: dagli attacchi a Mumbai, dove grazie a Twitter si riuscirono ad avere le prime informazioni, alla rivolta di Teheran in occasione delle elezioni iraniane, per arrivare alla Primavera Araba. Nessuno ormai ha dubbi sul fatto che Twitter sia il mezzo più rapido e meno controllabile dalla censura per avere informazioni in tempo reale.

Quando nacque Twitter, né Stone né Williams sapevano cosa sarebbe diventato e se avrebbero mai fatto soldi. Noi avevamo sperimentato le potenzialità dei telefonini per le notizie e la converssazione. Ma non avevamo capito. Pensavamo che avremmo potuto vendere subito la pubblicità. Avevamo le tecnologie. La cultura, evidentemente, ancora no. Occorrevano altre regole. «Oggi ci sono opportunità fantastiche di cambiare il mondo, costruire business e divertirsi: meglio se si riesce a fare le tre cose insieme», mi disse Stone prima di salutarci. «C’è una risposta creativa ad ogni problema e il nostro motto è dobbiamo farlo meglio, o qualcun altro lo farà meglio di noi».

Nell’aprile del 2002, dopo un breve passaggio ad HdpNet, società web del gruppo Rcs allora guidato da Cesare Romiti, arrivai al «Corriere della Sera». Il sito aveva una struttura più da magazine che da quotidiano. Lo spazio per le breaking news era ridotto, mentre ci si concentrava maggiormente su «speciali» e approfondimenti su temi vari. La redazione online, una decina di giornalisti, tutti provenienti dalla carta, era collocata in uno spazio, vicino alla ex mensa, isolato dal resto del giornale(c’era anche il passavivande che chi era di turno al desk utilizzava per chiedere i pezzi alla redazione infilando la testa attraverso il muro). I colleghi del quotidiano non scrivevano per il sito.La pubblicità, venduta dagli stessi agenti della concessionaria impegnati sulla carta, era praticamente inesistente. Il digitale perdeva, in quell’anno, se non ricordo male, intorno agli 8 milioni di euro. Repubblica.it, benché gravata economicamente dalla mancata quotazione in borsa di Kataweb, aveva investito molto sul digitale e viaggiava a un’altra velocità. Dovevamo rincorrere. Alcune decisioni permisero di annullare in pochi anni il profondo gap che non era giustificato dal prestigio della testata: il «Corriere della Sera» era sempre il primo quotidiano italiano per circolazione di copie.

Un sito in perdita deve, prima di tutto, tagliare «i rami secchi» per poter investire negli asset di maggior resa.

1. Corriere.it aveva una serie di rubriche che in rete non sempre incontravano le aspettative dei lettori. Con un occhio ai dati di traffico tagliammo le collaborazioni che non funzionavano.

2. Lavorammo sulle immagini che non erano sfruttate in modoorganico e continuativo per due motivi: il disegno grafico nonesaltava l’impatto delle foto; inoltre, i contratti con le agenzie non erano stati trattati separatamente da quelli del quotidianocon il risultato che i costi di ogni singolo scatto erano troppo onerosi per l’economia del web. Rivedemmo tutti i contratti alribasso convincendo i fornitori che avremmo usato più immagini.

Questi accordi ci consentirono di iniziare a produrre fotogallery e fotostorie sui principali avvenimenti di attualità e di costume. Il risultato fu sorprendente e in poco tempo Corriere.it recuperò, almeno in termini di pagine viste, sul principale concorrente, Repubblica.it.

3. Altro elemento fondamentale fu la velocizzazione nel trattare le breaking news che era il vero, incontrastato, campo su cui si batteva Repubblica.it. Ampliammo lo spazio in homepage per le news, dedicando a queste il corpo centrale. La redazione, formata da colleghi che provenivano dalla carta, si convertì a lavorare con i tempi delle agenzie. Titolo e poche righe per andare in «tempo reale» in home con le notizie e poi una lavorazione a step successivi per aggiornamenti, approfondimenti, link, foto, video e quant’altro fosse necessario alla realizzazione di un pezzo multimediale e interattivo.

4. In occasione della seconda guerra del Golfo, nel marzo 2003, fu inaugurato l’aggiornamento del sito sulle 24 ore, che sarebbe poi rimasto una costante in presenza dei grandi eventi. Lanciammo anche il servizio «sms news» su cellulare (questa volta a pagamento) già sperimentato a Quotidano.net. Entrambe le iniziative contribuirono alla crescita degli utenti unici.

5. Strategica, al fine di aumentare l’audience digitale, fu la scelta di creare, all’interno della home, uno spazio dedicato alle notizie di intrattenimento, più leggere, curiose, «sexy», quello che Luca Sofri avrebbe poi battezzato la «colonna infame», e a cui noi, con intento trasparente, avremmo in seguito dato il nome «zapping news». In un Paese dove le connessioni erano ancora poche, con una lingua poco parlata nel mondo, avevamo la necessità di catturare il più ampio numero di lettori possibile. Fu uno «scarto» editoriale digerito a fasi alterne dall’austero «Corrierone». Ma quella scelta, che ci permetteva di suonare le corde «alte» e «basse» dell’informazione, allargò l’audience in modo altrimenti impensabile.

Gli editoriali di Giovanni Sartori e Galli della Loggia, le analisi economiche e politiche, convivevano nella home page, seppur in spazi diversi, con il Grande Fratello e i calendari sexy (ancora non uccisi dai vari siti porno). I quotidiani più autorevoli e venduti, «Corriere» e «la Repubblica», avevano creato i primi «giornali pop» italiani: i loro siti web.6. Utenti e pagine viste aumentavano a ritmo straordinario. Ma mancava ancora qualcosa per traghettare Corriere.it nell’Olimpo di «quelli che ce la fanno con le proprie gambe»: i ricavi. Per crescere e avere risorse da investire nel digitale era necessario produrre utili. Affidarsi esclusivamente agli agenti della carta, allora ampiamente soddisfatti del loro portafoglio clienti, avrebbe prolungato l’attesa. Era invece necessaria quell’accelerazione che l’ampliamento dell’audience digitale rendeva adesso possibile.

Rcs decise di affidare la vendita degli spazi digitali a un gruppo di giovani «smanettoni» che potevano agire sui clienti solo per il web. Fu una mossa azzeccata che fece decollare la vendita di spazi sul digitale e funzionò da stimolo, in seguito, per tornare a una integrazione con tutta la forza vendita.Nel gennaio 2005 Corriere.it aveva raggiunto 3,1 milioni di utenti unici e oltre 100 milioni di pagine viste al mese. La componente news, l’uso diffuso delle immagini e la velocità erano diventate l’anima del sito. Il pareggio economico fu raggiunto quell’anno o quello successivo, non ricordo con esattezza. Nel 2011 il sito del «Corriere della Sera» ha raccolto 32 milioni di euro di pubblicità (fonte Italia Oggi).

Messo a punto l’assetto di Corriere.it dal punto di vista della copertura delle news e delle immagini, nel 2005 lo sviluppo siconcentrò sui video. Rcs aveva in pancia dal 2001 uno straordinario format che, nella sede di via Rizzoli, era stato sfruttato prevalentemente per gli incontri con gli autori: la videochat. Il primo a inaugurare la diretta video rispondendo alle domande dei lettori era stato l’ambasciatore Sergio Romano nel 2001.

Quello strumento, che permetteva ai lettori di interagire con i personaggi intervistandoli in diretta, meritava maggiore visibilità e spazio sul sito. Il 24 settembre 2005 nacque ufficialmente «Media Center», primo passo verso quella che di lì a poco sarebbe diventata la web tv di Corriere.it. La piattaforma di erogazione video conteneva, oltre a tutte le video news prodotte dalla redazione e da service esterni, due edizioni di tg online (alle 11.30 e alle 16,30, prime time dalle connessioni da ufficio), «Star News», notiziario dedicato al mondo delle celebrities, e la raccolta di tutte le videochat realizzate da Corriere.it con i personaggi del mondo della politica, della società, dello sport, dello spettacolo. In quegli anni l’amministratore delegato Vittorio Colao guardava con interesse all’opportunità di traghettare Rcs anche nel mondo televisivo con l’acquisto di un’emittente nazionale. Con le frequenze bloccate dal duopolio Rai-Mediaset non se ne fece di nulla. Puntare sulla rapida diffusione della banda larga e sullo sviluppo dei video digitali si rivelò una valida alternativa. Nei suoi primi tre mesi di vita Media Center raggiunse 1,2 milioni di utenti medi mensili, erogando oltre 5 milioni di streaming video.

A segnare la maturazione di Media Center in una vera web tvfurono le elezioni politiche del 2006. Tanto per avere un’idea del periodo storico, in termini digitali, basti ricordare che YouTube, non ancora entrato nella pancia di Google (lo farà a ottobre), erastato fondato poco più di un anno prima, nel febbraio del 2005.

L’11 aprile 2006 l’Ansa batteva un take che dava conto dell’andamento delle elezioni sui siti web. Repubblica.it, che storicamente beneficia di un traffico straordinario in presenza di consultazioni politiche, triplicò le pagine viste, 50 milioni, e sfiorò il milione e mezzo di utenti unici. Corriere.it realizzò il suo record assoluto dalla nascita: 25 milioni di pagine viste e oltre un milione e centomila utenti unici. Per seguire i risultati elettorali, negli studi televisivi di Corriere.it, fu allestita una diretta video, con collegamenti esterni con gli inviati del «Corriere della Sera» e i leader politici. La diretta, dalle 15 del pomeriggio a notte fonda, fu condotta da Beppe Severgnini.

La sola web tv raggiunse 100.000 utenti unici e totalizzò 13.000 domande degli utenti nei confronti dei politici intervistati e dei commentatori che si alternavano in studio. Per avere un termine di paragone, Rai.it realizzò 5 milioni di pagine viste e 590.000 utenti unici; Rainews24 636.000 di pagine viste e 100.000 utenti unici, Tgcom 660.000 utenti unici e 10,9 milioni di pagine viste.Ma la vera novità di quelle elezioni furono le videochat di Corriere.it che, durante la campagna elettorale, fecero incontrare candidati e leader dei partiti con i lettori. In occasione del confronto con il vicepremier Gianfranco Fini, il 16 marzo, si collegarono 11.000 utenti che inviarono 4.700 domande. Il 26 marzo il «botta e risposta» con il candidato premier del centrosinistra Romano Prodi tenne attaccati allo schermo 8.000 lettori che inviarono 6.000 domande. Il giorno successivo agli incontri il «Corriere della Sera» pubblicava sulle proprie pagine politiche i migliori passaggi delle interviste dei lettori. Anche la Bbc riprese, traducendolo, il colloquio digitale con Prodi.«Questi incontri sono la vera novità mediatica della campagna elettorale», dichiarò a «Panorama» del 13 aprile 2006, Paolo Mieli, allora direttore del «Corriere della Sera». «Per la prima volta i politici hanno la possibilità di confrontarsi con centinaia di migliaia di persone».Le videonews on demand, le dirette dallo studio, le videochat, le rubriche affidate a critici e editorialisti del «Corriere della Sera», da Beppe Severgnini ad Aldo Grasso e Paolo Mereghetti, avevano trasformato «Media Center» da un contenitore di video a una web tv. Mancava, ancora, tuttavia, il punto di forza della televisione tradizionale: la diretta dei grandi eventi.

Nel dicembre del 2008, grazie a un accordo con H24, agenzia romana che fornisce immagini in diretta ai grandi broadcast internazionali (dalla Bbc ad Al Jazeera), la web tv di Corriere.it testò la prima diretta web mandando live le immagini dell’esondazione del Tevere a Roma. Un filone, tutt’ora attivo sul sito del «Corriere della Sera», che ha permesso, anche con l’intervento in video degli inviati del giornale, di seguire in diretta tutti i principali eventi di cronaca e politici degli ultimi anni: dai congressi dei partiti al terremoto dell’Aquila, dalle manifestazioni dei no Tav al naufragio della Costa Concordia.

Multimedialità, integrazione con il lavoro dei giornalisti della carta, interattività e apertura ai commenti dei lettori, dirette video e diverse piattaforme per la diffusione di notizie e immagini: il giornalismo italiano era entrato, finalmente, nella sua fase matura. In tutti questi anni siamo stati testimoni di una tendenza apparentemente incontrovertibile: la veloce espansione dell’audience digitale e la corrispondente, lenta ma inesorabile, erosione della circolazione delle copie stampate. Le ragioni sono ovviamente molteplici. Ma non tutte inevitabili.

A partire dagli anni Ottanta, a causa soprattutto del grande flusso di agenzie e di informazioni che arrivavano nelle redazioni, il lavoro dei giornalisti si è progressivamente spostato sul desk. C’era abbastanza materiale in circolazione per riempire tutti i giorni due-tre giornali semplicemente selezionando il meglio che arrivava nelle redazioni. Meno reporter fuori a cercare notizie di prima mano e più giornalisti al desk a selezionare le notizie è stata la formula che, per un certo periodo, ha consentito agli editori di abbattere notevolmente i costi aumentando i ricavi (anche se il risultato fu, inevitabilmente, di avere sempre più quotidiani-fotocopia).

Questo modello ha funzionato fino all’inizio del decennio scorso quando, con la diffusione delle connessioni internet e dei giornali online, una considerevole parte del pubblico ha cominciato a informarsi in rete. Più i siti crescevano in termini di utenti e di capacità di coprire il notiziario, più i quotidiani dovevano apparire ai lettori una vecchia «preghiera laica del mattino». La sovrapposizione tra sito e quotidiano, in una società diventata digitalmente iperattiva, grazie anche all’arrivo dei social media, ha finito per aprire un conflitto interno. Il tempo per accedere a tutte le fonti e i supporti di informazione è cominciato a scarseggiare.

Il diffondersi dell’inglese ha aperto nuove straordinarie opportunità di ricorrere direttamente ai grandi siti di news internazionali, dal «Guardian» al «New York Times». Come se non bastasse, tutta questa straordinaria informazione è diventata disponibile, per tutti, in forma gratuita. Inevitabile che i giornali, ancorati alla formula dello «yesterday news», incontrassero qualche difficoltà a catturare nuovi lettori, soprattutto tra i giovani.Cambiare i giornali di carta, sperimentare nuove vie, non è facile. Si rischia di perdere lo zoccolo duro dei vecchi lettori, senza conquistarne di nuovi. Tuttavia l’immobilismo che per anni ha caratterizzato i processi produttivi e le linee editoriali dei quotidiani italiani non ha aiutato a fermare l’emorragia di copie. A partire dalla crisi congiunturale del 2008, che per l’editoria è anche strutturale, la paralisi è diventata anche più evidente.

La preoccupazione principale di quotidiani e riviste in crisi è diventata ristrutturare e tagliare i costi. Ma questa strada avvicina pericolosamente la carta al web e allora sarà sempre meglio la versione online, che è pure gratis. I giornali che vogliono avere un futuro dovranno concentrarsi sempre di più su un’offerta che sia radicalmente diversa da quella del web.Nell’aprile 2010 sono passato dal «Corriere della Sera» a Condé Nast. Lasciare il «frullatore» del notiziario digitale per approdare a un mondo che allora, sbagliando, ritenevo meno dinamico, mi spaventava. Mi convinsero i progetti di espansione digitale dell’editore, Giampaolo Grandi, e l’opportunità di tornare a lavorare con Carlo Verdelli, con il quale avevamo condiviso l’esperienza al «Corriere della Sera», uno dei pochi direttori che sappia ancora insegnare il mestiere.

Negli ultimi due anni Condé Nast è forse l’editore che più ha investito sul digitale. Sono stati lanciati tre nuovi siti (Vogue.it,VanityFair.it e Glamour.it), completamente rinnovati gli altri tre: Wired.it, Gq.com e Style.it. Sono state realizzate due applicazioni di successo per smartphone, Wired Wi-Fi, che consente di trovare le connessioni libere o a pagamento più vicine alla posizione dell’utente, e Glamour Personal Shopper, vero e proprio punto di riferimento geolocalizzato per il «social shopping». Senza considerare il lancio del mensile «Myself» che, in un momento non certo brillante per l’editoria, nei primi quattro mesi ha segnato un successo ben al di sopra delle aspettative.Lavorando su siti legati ai periodici, ho avuto conferma di quello che dalla sponda dei quotidiani avevo intuito: è la tendenza alla sovrapposizione tra carta e web che mette in crisi uno dei due (di solito la carta), mentre tra i media ci vorrebbe più complementarietà.

Da questo punto di vista, i siti dei periodici presentano un vantaggio: mantengono il taglio editoriale delle testate di riferimento, ma raramente si sovrappongono nella scelta deicontenuti. Le notizie, gli approfondimenti, gli alleggerimenti che vengono offerti quotidianamente ai lettori sui siti, non sono quasi mai gli stessi trattati dal giornale stampato, sia esso settimanale o mensile. Vale anche il contrario. Il sito è come un «elastico» che si allunga per tenere «legati» i lettori tra un’uscita e l’altra del periodico. Allarga la comunità dei lettori, attirando molti più giovani dal web di quanto non sia in grado di fare l’edicola. Ma al tempo stesso crea un legame tra il web e l’edicola. Perché quando scegli una testata, partendo dal web o dalla carta poco importa, alla fine ti senti parte di una comunità, membro di un club esclusivo. Il senso di appartenenza e di riconoscibilità è fortissimo.

Nel mondo dei periodici alla crescita degli utenti web tende a corrispondere anche una crescita delle vendite delle testate in edicola. Un fenomeno opposto a quello osservato per oltre dieci anni sul fronte dei quotidani.

Per quanto riguarda l’organizzazione delle redazioni non cambia poi molto. Anche i siti dei periodici sono ormai aggiornati in tempo reale da redazioni dedicate, che lavorano gomito a gomito con i colleghi del cartaceo, e guidate da un responsabile che fa capo, per le decisioni più delicate, al direttore responsabile della testata.

Cambia, invece, il modo di trattare l’informazione. Le breaking news, che si possono leggere sui siti dei quotidiani, hanno meno spazio e, se vengono riprese, si cerca sempre un taglio particolare, che ne esalti un aspetto, che porti alla luce una storia rimasta sotto traccia. Inoltre, si lavora molto di più sulle «esclusive», notizie originali da offrire ai lettori. Ogni testata web cerca di mantenere un linguaggio e un taglio delle notizie che sia inconfondibilmente «alla Wired», «alla Vanity Fair», «alla Vogue» ecc.

Rispetto ai siti dei quotidiani, c’è molta più attenzione alla qualità dei contenuti e al modo di presentarli ai lettori. In passato ho lavorato per editori anche molto attenti alla qualità: sicuramente Franco Maria Ricci (Fmr e Kos), per aspetti diversi il «Ponte» di Calamandrei, la «Voce» di Indro Montanelli, lo stesso «Corriere della Sera». Ma mai mi ero imbattuto in un editore che fa della ricerca della qualità un mantra quotidiano. La qualità ha molto a che vedere, unitamente ad altri asset editoriali, con la capacità, una volta agganciato un lettore, di fidelizzarlo e di trasformarlo inun utente non occasionale.Non è questa la sede per addentrarsi nelle metriche web: nell’impetuosa avanzata del digitale tutti, chi più chi meno, possono vantare crescite esponenziali di pagine viste e utenti unici. Vale la pena, invece, di fare una riflessione su un parametro fino ad oggi poco considerato e che potrebbe diventare sempre più importante in futuro: il «fattore tempo».

Ciò che da valore al nostro lavoro, che discrimina il successo o l’insuccesso dei giornali, dei siti web o delle applicazioni, è il tempo che i lettori dedicano a informarsi su un fatto che trovano interessante, costruttivo o divertente.Questo parametro è destinato a diventare sempre più importante. Il tempo che i lettori dedicano all’informazione cheproponiamo testimonia un interesse non secondario, non occasionale, da mordi e fuggi. È a questa risorsa che gli investitori guarderanno con interesse crescente perché, come i giornalisti e gli editori, hanno bisogno di catturare l’attenzione degli utenti.

Quotidiani e magazine si presentano in edicola come un tuttoindiviso, un’offerta informativa confezionata che il lettore acquista nella speranza di trovare un numero soddisfacente di contenuti. L’utente web, soprattutto i nativi digitali, che costituiscono la parte più consistente dei nostri futuri lettori, è invece abituato a «cogliere» i contenuti che ritiene interessanti costruendo un proprio percorso informativo «multi-testata». La digitalizzazione, complici anche siti come iTunes e YouTube, ha indebolito l’abitudine al palinsesto e al «pacchetto unico». Voglio un video, una canzone, vedere una trasmissione televisiva? Non programmo di sintonizzarmi su un canale a una determinata ora, ma vado su Google, Youtube o su un sito di file sharing nella convinzione che troverò quello che cerco. Questa rivoluzione nelle abitudini di fruizione dei contenuti deve fare riflettere sull’importanza dei prodotti «pensati digitali». I contenuti non hanno più un valore esclusivamente nelle gerarchie di un giornale o di un magazine, che pure mantengono una funzione fondamentale nell’inquadrare fatti che abbracciano in un arco temporale più o meno esteso. I contenuti oggi possono vivere e avere un valore anche se destrutturati e ricomposti in applicazioni che fanno una sola cosa, molto bene, in modo utile o divertente per gli utenti. Dobbiamo fare un ulteriore sforzo per smettere di pensare ai vecchi modelli con i quali siamo cresciuti come a cattedrali intoccabili, pena il rischio di crollo della struttura, e avere più coraggio nello sperimentare nuove offerte che rispecchino la flessibilità di un mercato in perenne, veloce, evoluzione. Il mondo delle applicazioni è una frontiera in gran parte ancora inesplorata.

La digital replica del giornale, sia esso quotidiano o periodico, non è l’unica strada percorribile.

Se impareremo a capire di cosa veramente i lettori hanno bisogno, la creazione di applicazioni che hanno solo alcuni punti di contatto con il giornale potrebbe diventare un’importante fonte di ricavi per gli editori.La crescita digitale, benché impetuosa, non ha ancora compensato il calo dei ricavi dovuto alla crisi della carta. Possiamo ipotizzare due fattori principali di questa mancata «compensazione». Il primo ha a che vedere con le metriche digitali. Considerare solo le pagine viste e gli utenti unici dice poco su fedeltà e attenzione dei lettori. Sappiamo che molta parte del traffico è indirizzato sui siti dai motori di ricerca, Google su tutti. Questo percorso fa ritenere il lettore digitale un «infedele», un utente che saltella da un contenuto all’altro senza mai concentrare la propria attenzione su qualcosa che gli interessa veramente. Una maggiore valorizzazione del fattore tempo, e quindi dell’attenzione che i lettori prestano alla testa digitale, potrebbe rappresentare un elemento determinante nel futuro dell’advertising online.Per contro, occorre ammettere che in 18 anni di vita il bannersembra aver esaurito parte della sua funzione. Oggi gli investitori chiedono soluzioni innovative e personalizzate, in grado di catturare l’interesse dei lettori. Non una semplice esposizione, ma un invito a partecipare all’offerta, sia essa un gioco, un concorso, un video virale.

L’incredibile e rapida crescita dei social media, con il conseguente passaggio dalla società della comunicazione alla società della conversazione, ha di nuovo sparigliato le carte cambiando il rapporto fra lettori, giornalisti, fonti e brand.

Se non ci attrezzeremo per tempo per coinvolgere i lettori nella conversazione con i giornali, rischieremo di essere spazzati via dai vari Twitter, Facebook e da tutti quelli che verranno dopo di loro.Postare su Twitter o Facebook i contenuti che produciamo è solo un primo insufficiente passo. I social media non funzionano come le buche delle lettere. Se vogliamo raggiungere risultati seri e allargare il nostro pubblico è necessario comunicare con i lettori anche su queste piattaforme. Dobbiamo provocare le loro reazioni, rispondere alle loro domande, discutere i temi che loro sollevano, fare sentire loro che stiamo ascoltando, che non c’è un noi e un voi, ma che stiamo lavorando insieme ad un progetto più grande.

Se continueremo a investire tutta la nostra energia mentale nel cercare di conservare il vecchio modello di business dell’editoria, non saremo mai capaci di sperimentarne di nuovi che funzionino meglio per tutti: online e offline.

La ricerca più esaustiva sul rapporto tra periodici e siti web è,probabilmente, l’indagine condotta sul mercato Usa da VictorNavasky e Evan Lerner, Magazine and Their Web Sites, per la Columbia Journalism Review nel marzo 2010.

Sintetizzo alcune conclusioni che possono essere condivise, rimandando per l’approfondimento e per le percentuali del sondaggio alla ricerca stessa.1. I siti web dei magazine risultano più redditizi quando le decisioni sul budget sono affidate al publisher o a un web editor indipendente e le decisioni sui contenuti vengono prese da un web editor indipendente rispetto al direttore del magazine.2. Più alta è la circolazione del magazine o il traffico del sito,più la responsabilità su budget e contenuti è affidata a un web editor indipendente.3. Quando il sito è affidato a un web editor indipendente, latendenza è di avere anche staff dedicati per stampa e web, piuttosto che una maggioranza di giornalisti che lavorano per entrambi i media.4. Il fact-checking è meno rigoroso online che nella stampa, soprattutto quando i contenuti sono affidati a un web editor.5. La pubblicità è di gran lunga la maggiore risorsa di ricavi per i siti dei magazine.6. La maggior parte dei siti che fanno profitti offrono i loro contenuti free. Solo una piccola parte dei siti usa un paywall e questi producono meno profitti di quelli che offrono contenuti free.7. La maggior parte dei magazine Usa i social media. «Una delle più salienti caratteristiche dei new media è la capacità di interagire con l’audience e costruire community di lettori attraversoblog, commenti, forum di discussione e utilizzo dei social media…»8. La maggior parte dei magazine ha i blog nel sito.9. Circa la metà dei siti analizzati utilizza le metriche per prendere decisioni sui contenuti. I siti che usano regolarmente le statistiche di traffico per prendere decisioni sui contenuti sono significativamente più profittevoli.10. «In origine, la maggior parte dei magazine vedeva il sito web e l’illimitata capacità del cyberspazio come una via per promuovere la pubblicazione a stampa, pubblicare materiale che non poteva rientrare nel magazine e/o per creare nuovi flussi di ricavi dallo sfruttamento del brand dell’edizione a stampa».

La ricerca mette in luce alcune criticità. «Benché si sia entratinella seconda decade della presenza dei magazine sul web» – scrivono gli autori nelle conclusioni – «il sondaggio dimostra che le persone che lavorano sui siti dei magazine provengono ancora ampiamente dal mondo del giornalismo stampato». In un mondo professionale ancora profondamente radicato nella cultura «Gutenberg», la versione web è vista in qualche modo come inferiore se comparata con quello che è destinato ad essere stampato sul magazine. E a poco vale se il sito può vantare una readership, in alcuni casi, anche cinque volte superiore all’edizione stampata.

La rivoluzione digitale è fatta, ma quella culturale è ancora di là da venire. Se il 25% degli intervistati ha risposto che parte del materiale finisce in rete perché non adatto o non buono abbastanza per il magazine, è chiaro che la strada da percorrere per i giornalisti è ancora molto lunga.

Con l’arrivo dei tablet il cerchio si chiude. Come ha ricordatoAndrew Sullivan: «The laptop replicates the old newspaper experience; the tablet replicates the book. Everything new is old again».Dal mondo finito di Gutenberg, con le deadline che dettano itempi in redazione, siamo passati al work in progress dei siti web, sempre aggiornati, senza tempi morti o chiusure. Il tablet, in qualche modo, ci riporta in un mondo antico dove le cose si fanno e si finiscono, le storie hanno un inizio e una fine, un mondo chiuso dove, per adesso, non c’è spazio per distrazioni, né link attraverso i quali saltare da un giardino ad un altro, né pop up che interrompano i percorsi di lettura.

Secondo una ricerca dell’ottobre 2011, condotta dal Pew Research con Economist Group, il 42% dei lettori di news su tablet si addentra regolarmente in profondità negli articoli, mentre un 40% lo fa saltuariamente. L’esperienza di lettura sui tablet ci riavvicina a quella che per anni abbiamo avuto con la carta.

I tablet, con la conseguente esplosione di app, sembrano promettere una nuova rivoluzione nel decennio. L’alta qualità delle immagini e le modalità di fruizione offrono l’opportunità di una seconda vita, soprattutto per i magazine dei quali possono esaltare la qualità dei contenuti come nessun media era riuscito a fare in passato.La stampa impegna uno solo senso: la vista. La radio richiede per la fruizione il coinvolgimento dell’udito. La televisione è stata il primo media a doppio coinvolgimento sensoriale: vista e udito. Da lì non ci siamo più mossi fino all’avvento dei tablet.L’iPad, in particolare, ha introdotto il coinvolgimento di un terzo senso: il tatto. I cinque sensi sono oramai quasi tutti coinvolti: mancano olfatto e gusto. Ma non è detto che un giorno anche essi facciano il loro ingresso nel variegato sistema dei media.Da questo punto di vista, i tablet offrono percorsi di lettura e fruizione completi e complessi: leggere, guardare, ascoltare, toccare diventano gli strumenti di una esperienza personale che travalica il singolo nel momento in cui si fa interattiva e condivisa. Negli ultimi venti anni di continua evoluzione nel campo dei media abbiamo vissuto in un laboratorio permanente: qualcosa abbiamo sperimentato e molto abbiamo sbagliato. Ma abbiamo anche imparato tanto.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it
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